Martedì 14 aprile 2009
Sento che è arrivata la volta dei call center.
Con una certa sorpresa mi sono accorto che le chiamate per i colloqui arrivano a cicli.
C’è stata la volta delle assicurazioni, quella dei promotori finanziari, ora è quella dei call enter.
Il bravo disoccupato deve cercare di tutto, mettendo da parte l’orgoglio. In attesa del lavoro della vita la priorità è bloccare l’emorragia delle uscite, quindi qualsiasi opportunità è buona.
Da tempo ho imparato ad inviare curricula ‘tarati’ sulle offerte: di volta in volta rimuovo dal civvì base ora il ‘classico’ del liceo (troppo impegnativo), ora la laurea in giurisprudenza (troppo compromettente), ora lasciando nel vago le esperienze professionali.
Da oltre un anno ho sottolineato il particolare, non trascurabile, di essere iscritto alle liste di disoccupazione, e, con un certo orgoglio, ho inserito la pur breve – ma significativa – esperienza come cuoco da bar.
L’appuntamento con la e-care è per le 14.
Nei giorni passati ho avuto modo di sondare con google quanto riuscivo a reperire sulla società: siti e, soprattutto, blog. Il quadro che ne esce non è dei migliori, ma neppure dei peggiori. Tutto sommato, rispetto alle informazioni che ho raccolto sui call center, si naviga nella media. Il che, visti i tempi che corrono, non è nemmeno male. Eppoi, via, per chi ha affrontato colloqui con Mediolanum targata Berlusca tutto va bene.
Cerco di vedere il lato positivo del call center: ambiente giovanile, nessuna possibilità di carriera, stipendio alla fame (ma pur sempre un qualcosa che assomiglia allo stipendio), un posto di lavoro al coperto (circostanza non da poco), possibilità di nuove conoscenze.
Parto col dovuto anticipo: è sempre meglio non arrivare tardi! La sede del call non è così lontana, ma ci si deve arrivare col 62. ed il 62, per chi non lo sapesse, è un pulmann fetente: a leggere sulla tabella degli orari dovrebbe passare ogni 12 minuti nelle ore di punta, ogni 16 quando il traffico langue. E’, tuttavia, cosa risaputa, per chi lo sa (gli altri ne prendano nota mai ne dovessero avere bisogno) che il 62 passa quando vuole, quando capita, quando se ne ricorda, quando non ha di meglio da fare.
Per le 12, quindi, sono alla fermata. Tutto sommato non mi va neppure male: aspetto solo 20 minuti e, per ingannare il tempo, mi trovo a dare ragione ad una signora che si lamenta dei ritardi ‘come se la gente potesse aspettare i loro (ndr. dei conducenti) %$&§° comodi’.
Ovvio che il bus è stracolmo. Diversi studenti, molti extra-comunitari, almeno una persona che va ad un colloquio, che, poi, sarei io.
L’affollamento non mi è di fastidio, anzi.
Il pulman si lascia andare appesantito del fardello dei passeggeri lungo la discesa di via Pietro Cossa con una rapida chicane per inchiodare alla fermata/semaforo proprio prima della Pellerina. Con un ‘ooooooooooh’ i passeggeri ondeggiano per ricercare l’equilbrio e, appena, ritrovata una certa stabilità, è tutto un ‘scusa, scusa, scusa’, qualche garbato ‘mi scusi’, e, già che ci siamo, qualche imprecazione.
Il gruppo, poi, si ricombatta e tutti cercano una presa sicura, un appiglio d’emergenza perché il bus sfreccia – letteralmente – lungo il parco: visto che non ci sono fermate l’autista, di certo, ne approfitta per recuperare il tempo perso lungo la tratta.
In fondo la calca e la condivisione forzata di piccoli spazi è una delle poche occasioni che la nostra società ci offre per fare conoscenza, stringere nuove amicizie in questo mondo, in questa società che, altrimenti, ci spingerebbe all’isolamento. Mi viene da pensare che, forse, possano anche nascere degli amori inattesi.
Eh sì, mi viene molto da pensare in questi ultimi tempi: tanto di tempo ne ho.
Passata la Pellerina si entra nell’una volta famigerate Vallette, dove, voleva una vecchia leggenda metropolitana, una volta persino le auto della solerte polizia non si avventurassero che a due a due e se solo inviate per punizione.
La giornata è fresca e, se il mio orologio non è in ritardo – circostanza che non mi sento di escludere – posso anche permettermi il lusso di ingannare il tempo facendo due passi due.
Poco distante c’è un Lidl.
Ho sempre avuto, da esterofilo quale sono, una certa simpatia per gli hard discount. Ricordo che una volta, quando gli hard discount arrivarono in Italia calando dai Paese del nord, presi a frequentarli. All’inizio erano frequentati quasi esclusivamente, anzi, diciamo esclusivamente da stranieri ed io avevo la curiosa sensazione di essere l’unico bianco.
Poi, i tempi cambiarono: arrivò la prima crisi, poi la seconda, quindi la terza. Adesso non so più a quale crisi siamo, ma sono quasi sicuro che la cifra sia a doppio numero.
E, man mano, arrivano non solo i bianchi, ma persino gli italiani. Qualche anno fa ricordo che in un hard del centro vidi anche un paio di professori universitari che, per passare inosservati, cercavano di darsi un’aria disinvolta, indossando la maschera del sociologo che studia il comportamento umano o quella di chi si trova lì per caso.
Entro, quindi, nel Lidl. Ho nulla da comprare, è solo per fare due passi: c’è chi fa le vasche in centro, chi jogging nel parco, chi si prende un cane per uscire la mattina al gelo persino prima che aprano le edicole e gode se piove o tira il vento: io inganno il tempo girando per mercati, supermercati ed hard discount.
E, poi, i single lo sanno: i supermercati possono essere l'occasione per fare incontri interessanti!
Esco.
La giornata è fresca, uno sprazzo di primavera.
Oserei dire che fa persino un accenno di caldo. Le persone che incrocio sono confuse: c’è chi, non fidandosi, indossa ancora il piumino, chi è armato di ombrello (per la serie ‘ non si sa mai’), alcuni giovani azzardano dei bermuda senza ancora osare le infradito.
Nel vedere tutti questi giovani in giro durante un orario che dovrebbe essere scolastico, mi verrebbe voglia di riprenderli e rimandarli i classe, preoccupato che siano loro la gioventù che col proprio lavoro un domani dovrebbe garantirmi una pensione.
Ma, poi, mi viene da pensare che, tanto, alle pensione la nostra generazione non arriverà mai.
Non io, di certo.
Ve l’avevo detto che – sarà la primavera – mi viene da pensare molto assai!
Con la dovuta e meditata calma risalgo via Pianezza, ché, tanto, devo arrivare al 289.
Man mano il paesaggio da urbano diventa sub-urbano, per lasciare il posto a vecchi muri gonfi di umidità che una volta circondavano improbabili depositi di merce varia ed assortita, un abbozzo di parco senza panchine. Una striscia di strada che si allunga laggiùùùùùùùùùuuuuuuu, verso un lontano orizzonte.
Più mi incammino, più inizio a preoccuparmi, non fosse altro perché in lontana inizio a vedere campi.
Poi, all’improvviso, alla mia sinistra vedo stagliarsi una costruzione di notevole dimensioni, bianco bianco, nuovo nuovo. I vetri sono fumeé, sulla sinistra un bar che si intuisce animato, sulla destra una filiale del san paolo, pardo, di intesa-san paolo ed intuisco (ma lo sapevate già che sono un tipo intuitivo) che anche qui è arrivata la civiltà. Attraverso un colonnato che unisce la parte destra con la sinistra (questa sì che è unità nazionale) si intuisce un cortile centrale gradevole.
Ne approfitto per entrare nell’animato bar di cui sopra per prendere un caffè e per andare a pettinarmi (e sì, la prostata non è più quella di una volta!).
Il cortile è gradevole, nessuna pianta, questo è vero, ma intorno si respira un’aria di nuovo senza per questo essere opprimente. Mi siedo su una panca. A dire il vero è un blocco di pietra di piccole dimensioni, ma vedendo che altri ragazzi sono seduti sopra altri blocchi, il vostro, l’intuitivo, ne deduce che trattasi di panche.
Tiro fuori dallo zainetto e mi sprofondo nella lettura.
Il bravo disoccupato si reca sempre ai colloqui armato di un libro.
Alle 13.55 insieme ad altri mi avvicino al citofono e, proprio perché si chiama citofono, citofoniamo. Non risponde nessuno.
Ricitofoniamo ed ancora niente.
La nostra attenzione viene attratta da un minuscolo foglietto scarabocchiato che avvisa che l’ufficio riapre alle 14.
Ci si fa coraggio pensando che non sono ancora le 14: se sono così precisi la cosa ci tranquillizza perché dimostra che la società è seria.
Alle 14, effettivamente, qualcuno risponde ed apre la porta.
Una ragazza ci avvisa che entro breve sarebbe arrivata un’altra ragazza ed, effettivamente, di lì a poco arriva una ragazza che ci introduce nella sala dove si sarebbe svolto il colloquio che, a questo punto anche i meno intuitivi tra voi lo avranno capito, sarà un colloquio di gruppo.
Entriamo in diligente fila indiana e mi verrebbe da proporre, a mo’ di fantozziana festa di capodanno, di improvvisare un trenino ciuf-ciuf. Ma desisto.
La ragazza, Elisabetta, si presenta, qualificandosi come psicologa (‘azz, hai detto niente) e presenta Stefania, la praticante-aiuto-psicologa.
I saluti di accoglienza di rito come una brava padrona di casa e, per far capire che è lei che conduce il giuoco, brucia tutti, chiedendo se sappiamo che il lavoro che viene offerto è in-bound, ma, soprattutto, se sappiamo che cosa vuol dire in-bound.
Effettivamente so cos’è l’in-bound, ma già sono il più anziano della quindicina di presenti e non mi sembrerebbe bello fare il saputello: ho sempre odiato i saputelli.
Non la deve pensare così il ragazzetto alla mia sinistra che, alzata la mano, spiega cos’è l’in bound e si becca il plauso dell’Elisabetta.
A me i primi della classe non sono mai piaciuti, è più forte di me.
Ma l’Elisabetta ci prende gusto e rincara la dose: ‘conoscete già la e-care?’.
Effettivamente mi sono informato, e mi torna in mente che la e-care bla-bla-bla fa parte del gruppo Ciarrapico. Non mi sembra carino né tantomeno elegante accennare seppur velatamente ai passati trascorsi giudiziari del gruppo Ciarra.
Desisto, io. Non desiste il primo della classe che inalbera nuovamente il braccio (lo ammetto mi viene la tentazione di spezzargli il braccino) e con vocina mbirignao snocciola la lezioncina: scommetto che alle elementari, alle medie e, molto probabilmente anche alle superiori, era il classico ragazzino che portava il regalo alla maestra.
L’Elisabetta è compiaciuta da tanto zelo e lo addita ad esempio. Come se non bastasse, scotendo la testa a mo’ di rimprovero, sussurra fredda fredda :’Ma ragazzi, quando andate ad un colloquio dovreste, per lo meno, informarvi prima su dove andate. Vabbé. Meno male che almeno uno di voi lo sapeva’.
Lo stronzetto sorride. Io sorrido allo stronzetto e mi verrebbe voglia di stringergli la mano, se non altro per stritolargliela, ma temo che, se non ci riuscissi (si sa che i giovani d’oggi sono molto più vitaminizzati di quelli di una volta), ne rimedierei una brutta figura.
Quindi desisto e ripiego abbozzando un sorriso.
L’Elisabetta riprende in pugno la situazione e presenta il lavoro: si tratta di un in bound (e, altrimenti, perché ci avrebbe chiesto se sapevamo di cosa si trattasse?), su turni di 24 ore, 5 giorni la settimana, forse 6, per la vodafone, 6 euro lordi l’ora, formazione di 5 giorni per otto ore al dì a 3,50 euro l’ora, con buoni pasto di 3-4 euro (che verranno rimborsati a chi supererà il test dopo il periodo di formazione entro 30-60 giorni).
‘Vi interessa il lavoro?’ chiede.
Il mio cuore sussulta, avrei voglia di saltare sui tavoli ed improvvisare una tarantella, buttare coriandoli in ogni dove, strombazzare una sirena da stadio.
Ma sono timido, lo sapete, mi conoscete e desisto.
Il primo test è un test alfanumerico tipo battaglia navale.
Ne ho già fatto uno e vado abbastanza sul sicuro.
Solo verso a fine l’occio destro decide di giocarmi un brutto tiro e mi viene un attacco di rapida, ma intensa e dolorosa congiuntivite. Per fortuna (massì, chiamiamola fortuna) non è la prima volta e non mi lascio prendere dal panico, abbandonandomi a urla e strepiti, lasciandomi cadere per terra in un rantolo modello attacco epilettico, come pure vorrei fare, ma col solo occhio sinistro (per fortuna ne ho due (di occhi, ma non solo di occhi, anche di orecchie, di mani, di braccia, persino di piedi e di qualcos’altro; di naso, invece, uno solo). Insomma, mi consolo pensando, stoicamente, che mi sarebbe potuta andare peggio.
La seconda parte del test richiede la risposta ad una serie di possibili situazioni.
Situazione 1: il tuo responsabile al call ti riprende per un motivo che ritieni ingiusto; come reagisci?
Beh, mi viene istintivamente da pensare che è uno *^?&%%$, che potrei – appena se ne presenta l’occasione – seguirlo in bagno e trasformarlo in una maschera di sangue ché neppure i suoi cari potrebbero riconoscerne la salma, che potrei rigargli l’auto, bucargli le gomme e, ma solo dopo, dare fuoco alla carcassa.
Cerco di restare sul generico e scrivo qualcosa del tipo: non me la prendo, ma ,appena se ne dovesse presentare l’occasione e privatamente (non in pubblico, di fronte a terzi) gliene chiederei il motivo, pensando che, comunque, visto che lui ha esperienza, potrebbe avere ragione.
Situazione 2: sono subissato di chiamate, mentre due colleghi se ne stanno amenamente chiacchierando senza fare un )(&/(&, pardon, senza fare niente; che fai?
La tentazione è di scrivere che, dopo averli, presi a sberle, potrei prenderli per i capelli sulla nuca e sbattere le loro esimie facce di =(/%&%T& l’una contro l’altra fino a trasformarle come delle angurie lasciate cadere dal decimo piano (avete presente l’effetto?).
Propendo per una soluzione più soft e scrivo, con bella grafia: cerco di sbrogliare la situazione e, col dovuto garbo ed appena se ne presentasse l’occasione, con parole educate e gentili cercando di non sbagliare neppure un congiuntivo, cercherei di far capire loro che il lavoro non svolto da alcuni ricadrebbe sugli altri colleghi. Dopodiché, per sdrammatizzare, offrirei loro un caffè, o un tè, o una gassosa,o, perché no, un chinotto.
Alla domanda ‘perché vorresti lavorare in un call center, non riesco proprio a scrivere – giuro che ci ho pensato, ma il braccio, quello destro, mi si è paralizzato – che adoro il call center; sono tentato di fronte all’opzione ‘perché spero di conoscere una ragazza carina, simpatica, intelligente e di facili costumi’, ma, poi, mi rendo conto che l’Elisabetta si renderebbe conto della str()&%)?: d’altra parte avete mai conosciuto una ragazza così? Parliamo di scienza, non di fantascienza! Insomma vado su una risposta classica tipo ‘perché ho bisogno di lavorare’. ‘Ah, sissì – mi dico – sempre meglio essere sinceri!
Sono le 14.30.
Il test è finito.
Ordinatamente, sempre in fila indiana, con la mano destra sulla spalla destra di chi ci sta di fronte, con passo lento e ritmato tipo legione straniera alla sfilata del 14 luglio usciamo dalla sala, ci si accomoda sulle sedie disposte lungo il muro, il corridoio, la saletta invero piuttosto ampia dell’ingresso ed in buon ordine si aspetta di essere richiamati per il colloquio individuale.
Io mi metto di buon grado sulla mia sediola, di fronte alla macchina del caffè –caffè lungo-caffè corto-caffè cortissimo-caffè con cioccolata-cioccolata con caffè-caffè con latte-latte con caffè-solo-latte.
Alla mia destra un ragazzone enorme, con gambe enormi costrette dentro pantaloni strettissimi, la camicia in puro acrilico dai disegni tanto improbabili quanto inverosimili. Non è agitato: è agitatissimo: ballonzola aritmicamente le gamboccione, dimena i gomiti tenendo ferme le mani sulle ginocchia, penso, spero per arieggiare le ascelle: chi non conosce i deprecabili e deleteri effetti del caldo, financo del primo caldo combinato sull’acrilico sulle ascelle?
Il ragazzo di fronte a me, invece, sembra il candidato ideale per un call center: resta per oltre 90 minuti al cellulare. Ho persino il dubbio che la telefonata sia simulata, ma che pensi di essere osservato dall’Elisabetta e, in tal modo, cerchi di mettersi in buona luce.
Tiro un bel sospiro e mi risprofondo nella lettura.
I primi colloqui durano (lo dico perché li cronometro) la bellezza di 20 minuti, intervallati da 5 minuti d’orologio di pausa.
Per fortuna ho di fronte a me un centinaio di pagine prima della fine del libro e, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, mi dico che avrò modo di dedicarmi alla lettura: sia resa lode a Gutenberg! Sempre sia lodato.
Per fortuna ancora maggiore dopo la seconda ora i colloqui iniziano a durare 15 minuti e dopo un’altra mezz’orata solo più una decina.
Inizio a domandarmi con quale ordine si venga chiamati: alfabetico? Per risultato al test? Colore dei capelli? Bellezza? Età? Casualità?
Alle 18.15 arriva il mio momento.
Le due esaminatrici sono palesemente stanche, sfatte, distrutte. O, almeno, è questa l’impressione che danno. E' vero, potrei approfittarmi di loro, ma non vedo l'ora di andarmene e neppure sono granché.
Il colloquio dura giusto 5-6 minuti.
L’Elisabetta si fa le domande e si dà le risposte: è interessato al lavoro? Può iniziare subito? È disposto a lavorare su turni?
Sìsìsìsìsìsì.
Stretta di mano ed avanti un altro.
L’altro è un’altra ed è l’ultima.
Mi rincuoro: se sono vere alcune delle ipotesi che avevo immaginato sull’ordine di chiamata non sono né il bello, ma neppure il più brutto; non ho fatto il test migliore, ma neppure il peggiore; non ho i capelli più biondi, ma neppure i più neri.
Un perfetto italiota medio.
NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.