martedì 28 aprile 2009

18. Maledetto Toscano






Ci sono state volte, e ci sono tuttora, in questi due anni di affannosa ricerca che mi lascio prendere da una qualche vaga nostalgia, un modo come un altro per tenermi compagnia.

Vedete, io ebbi l'avventura di scoprire la Toscana quando già ero avanti con gli anni (in età avanzata si possono fare nuove esperienze; per esempio a 32 anni ho scoperto il fumo, quello di sigarette, che avete capito; ma non distraiamoci, questa è un'altra storia), ottimista come sono e cercando di vedere qualcosa di positivo anche nelle situazioni negative (Dio solo sa quanto questa mia attitudine mi sia stata d'aiuto in questi mesi), debbo di ciò rendere grazie alla Giappichelli con la quale ebbi la sorte ('sorte' intesa proprio nell'accezione latina di 'avventura', 'caso fortuito') di lavorare per 3 luuuuuuuuuuuuuuuuuunghi anni.
A quei tempi ebbi in sorte di seguire come editoriale la Toscana.




All'inizio, per me, la Toscana fu una vera e propria scoperta, poi, divenne il mio rifugio.
Lavorare in Giappichelli aveva qualche lato positivo (che ancora dovrò scoprire, ma, l'ho detto, sono ottimista) e qualche chilata di lati negativi.
Insomma, e per farla breve, per sfuggire alle varie paranoie che vivere e lavorare in quell'ambiente inevitabilmente provocava, presi il vezzo di andare in trasferta - per l'appunto in Toscana - il lunedì (abbandonando l'assolutamente ed irrimediabilmente inutile riunione editoriale del suddetto lunedì), per fare ritorno il venerdì, possibilmente nel tardo pomeriggio.
Vedete, alcune malelingue arrivarono ad affermare che tali riunioni venissero indette per speculare su alcune agevolazioni fiscali di origine statale accordate alla formazione interna; ma io non arrivo ad azzardare tanto: più semplicemente creo che i capi indicano riunioni quando hanno nulla da fare, per convincere se stessi ed i propri collaboratori che sanno cosa fare, animati, quindi, da un puro e lodevole intendo pedagogico/educativo.
Che sia resa loro lode.

Permettetemi, al riguardo, di fare una citazione colta, appellandomi al buon Curzio, tanto perché non si pensi che abbia buttato al vento gli anni dedicati al liceo e per non dar credito, nel contento, a quanti riferendosi a me metaforicamente possano pensare 'braccia rubate all'agricoltura.




Nel suo libello meno noto 'Maledetti toscani', il Curzio esordiva con:
"E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani.
Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese.
E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno detto.
O forse perché, quando si tratta d'esser migliori o peggiori degli altri, ci basta di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, esser migliore o peggiore di un altro".


(ndr: come vedete in queste pagine di Diario non si trascura la cultura!)

Perché vi dico tutto questo? abbiate fede e capirete.

Dunque, martedì 28 aprile, di buon mattino, tanto per impegnare il tempo me ne ero andato trullo trullo dal medico, quello della mutua, per farmi decifrare gli esami del sangue.
Ora, non si deve pensare che il bravo disoccupato debba trascurare òla propria salute, anzi.
Qualche anno fa, quando ancora lavoravo (mi sembra passata un'enormità di tempo), qualcuna mi diceva: "Non ti ammalare: non puoi perdere giornate di lavoro".
In questi tempi io ho adattato tale monito in : "Non mi posso ammalare: devo cercare lavoro!".
Non vi sfugga la sottile differenza.
Mi permetto di attirare la vostra attenzione sulla circostanza che il bravo disoccupato ha alcuni vantaggi: molto (forse troppo) tempo libero, possibilità di trovare nei mercati, mini-mercati e super-mercati la merce a miglior prezzo (quello che si dice fare di necessità virtù), ma anche medicine e visite mediche gratis.

Perché, dunque, non approfittarne? In fondo per anni ho pagato le tasse anch'io, senza profittare di quello che, neppure troppo in fondo, era un mio diritto.
Quindi, ripetendomi e concludendo: restare in buona salute, impegnare il tempo in modo utile, avvalersi ed esercitare un proprio diritto.

Occhei? Andiamo avanti.
Ed, allora, eccomi lì, nella stanzetta, davanti al tavolino del buon medico della mutua.
E' lì da poco, quindi, come il Sordi nell'omonimo film, svolge il suo dovere con l'opportuna diligenza, un po' come faceva all'inizio la mia precedente medico della mutua. Negli ultimi anni le visite erano sempre più rapide e si concludevano con l'inevitabile offerta di una sigaretta.
Insomma gli esami vanno bene, fin troppo: io vorrei mi raccomandasse qualche esame supplementare, ma niente da fare.
Visto che è ancora nella fase coscienziosa andante, la visita si protrae ed è proprio allora che mi trilla, anzi mi ri-trilla il cellulare: vi avevo o non vi avevo detto che, quando si cerca lavoro, vale la pena portarselo dietro?

"Ah buongiorno, è il signor Griffero?" mi cantilena una vocina squillante, cinguettante.
Vorrei correggerla, dirle che sono il DOTT. Griffero, ma di questi tempi che vale un titolo?
Anzi, a dirla tutta, se mai dovessi avere un figlio (ma foss'anche una figlia) credo proprio che gli affibbierei come nome 'dottore' o, volendo esagerare 'ingegnere', con qualche variante tipo 'architetto', p.i.' (che si prestare sia come 'private investigator' - chi di noi non ricorda il Magnum p.i.?, o, più prosaicamente, 'perito industriale'); poi, libero di fare l'idraulico, il battilastra, l'elettricista, il meccanico, ..., sicuramente non si troverebbe disoccupato ed io un titolo glielo avrei assicurato.
"Ah, buongiorno - mi dice la cinguettante (ma ho imparato a non lasciar galoppare la fantasia spronato da una voce melodiosa: ricordo l'anziana segretaria di dove lavoravo o le ragazze intraviste nei colloqui per call center: fidatevi della mia parola: lasciate perdere) - sono Anna del gruppo Toscano, l'immobiliare".
L'immobiliare è il gruppo Toscano, non lei, ovviamente.
"Ah, ricorda di averci mandato un curriculum?"
Devo essere sincero, non ricordavo perfettamente di averlo inviato, ma Anna sa il mio nome, ha il mio numero di cellulare (altrimenti non mi avrebbe potuto chiamare): vado sulla fiducia (mai dare torto ad una donna) e le rispondo "Sì!, certo", chiedendo nel contempo indulgenza al medico.



"Ah, ecco - continua l'Anna - c'é una cosa che vorrei capire: lei è del '66, ha, quindi, più di 40 anni".
Per quanto mi spiaccia ammetterlo e non ne sia del tutto sicuro, pare che la matematica non sia un'opinione e, pertanto, ne convengo "Beh, sì, vado per i 43, ... ma a fine anno".
"Ah
(a questo punto avrete capito che all'Anna piace iniziare ogni e qualsiasi frase di senso più o meno compiuto con un 'Ah...'), che peccato: il suo curriculum era di sicuro interesse (lo so, lo so che è una frase prestampata), ma purtroppo abbiamo ricevuto indicazioni dalla direzione di selezionare sono i candidati al di sotto dei 40 anni, ..."

Ora, l'istinto mi avrebbe detto di buttarla sulla incostituzionalità di una discriminazione (sono o non sono state anche le donne ammesse al voto? possono o non possono anche le donne guidare? non dico che sia giusto, ma possono farlo!), mentre la prudenza mi suggerisce di affrontare l'affronto con diplomazia.
"Senta, Ah Anna, perché non mi richiama? Mi richiede quanti anni ho, io le rispondo che sono del '76, che, quindi, ho 33 anni e la cosa si risolve: che ne dice?".
"Ah, signor Griffero (e ridaje col 'signor': sono 'dottore'), mi dispiace, ma non è possibile, anche perché poi, quando le dovessimo chiedere dei documenti, la verità salterebbe fuori. Però - continua - la voce sembrerebbe in effetti più giovane".
Cerco, allora, di giocarmela prima con la galanteria "Anche lei, Ah Anna, ha una voce molto piacevole", per, poi, arrivare al limite della corruzione "se mi richiama e fa passare la mia candidatura le offro un caffé".
Ah Anna ride e ri-dacchia, si scusa e si ri-scusa "Ah, le prometto che se arriveranno diverse indicazioni dalla direzione riprenderemo certamente in considerazione la sua candidatura".

Cerco di vedere anche in questa situazione il lato positivo: beh, non le devo offrire un caffé, quindi ho risparmiato.


Quindi, dopo questa profonda riflessione che mi appaga e persino mi soddisfa, incorcio gli occhi del medico della mutua e sbotto in un: "Maledetto Toscano!".
E lui, di rimando "Vedo che ha letto Malaparte!"

"Lasciamo perdere, doc, alla prossima!"

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.

lunedì 27 aprile 2009

17. Dannato postino, il prossimo Natale niente panettone!



Ma vi ricordate fino a qualche anno fa che gioia era, tornando a casa, l’appuntamento con la cassetta delle lettere? Once upon a time, una volta c’erano incredibili sorprese: lettere, biglietti di auguri, persino cartoline.
Poi, quasi d’un tratto, tutto è cambiato. Prima è arrivato internet con le e-mail, ma il colpo di grazia è arrivato con gli essemmesse dei cellulari. Con gli essemmesse tutto è diventato più rapido, più veloce, ma che ne è stato delle lettere, quelle scritte a mano? Scomparse!
Io non amo gli essemmesse, me ne servo, ma non li amo. Detesto quella mania adolescenziale di contrarre tutte le parole, di storpiarle in improbabili codici fiscali. Detesto, anzi, odio, letteralmente odio il t9, non fosse altro perché non esista la metà delle parole che vorrei scrivere, ma ancora di più perché nel suo vocabolario non esiste il congiuntivo. Ed io difendo il congiuntivo, credo fortemente vada tutelato come i panda: se i panda una volta erano una specie a rischio, ora, forse non più, certo non è in via d’estinzione come il congiuntivo.

A dire il vero non amo neppure il cellulare. Va bene per le telefonate d’emergenza, per avvisare che si è in ritardo ad un appuntamento, ma dopo 3 minuti al cellulare mi domando perché non ci si possa vedere e parlare di persona.
Oddio, è vero, mi capita di uscire di casa e tornare indietro perché mi sono accorto una volta arrivato alla fermata del bus di esserne senza. Ma ci sono delle volte, cui non saprei rinunciare, in cui, se me ne accorgo una volta in pulman o in metro, che tiro quasi un respiro di sollievo e mi godo una giornata senza cellulare. E sono giornate impagabili.
In fondo c’è niente di peggio che avere con sé il cellulare e passare giornate intere senza una telefonata che sia una. Se qualcuno sbaglia numero, ho sempre la tentazione di tenerlo in linea, così, per sentirmi meno solo, tanto per fare amicizia.
Almeno, se è a casa, ci si può illudere che qualcuno ci cerchi, ma se è lì con te, hai un bel vedere se la suoneria è bassa, se c’è o non c’è campo: se non ti chiamano, non ti chiamano.
Vabbé, lo ammetto, in questi mesi mi sforzo di non dimenticarlo perché spero sempre che arrivi una tanto attesa telefonata per un possibile colloquio di lavoro.
Eppoi che dire se la donna della mia vita mi dovesse cercare superando la sua diga di timidezza. E’ vero, al momento non c’è nessuna donna della mia vita, ma ammettiamo che arrivi, che riesca ad avere il mio numero di cellulare, che mi chiami: non sarebbe scortese dire che l’avevo dimenticato a casa? In fondo sono un gentiluomo, che lo crediate o no.

Insomma, pian piano le buche delle lettere si sono svuotate, per diventare il regno incontrastato della pubblicità e … delle bollette.
Io ho iniziato ad amare la pubblicità in buca, quando la trovo tiro un sollievo di sospiro, pardon, un sospiro di sollievo. Sento di averla fatta franca, che anche questa volta mi è andata bene. Me la guardo, vedo se, caso mai, c’è qualcosa d’interessante, qualche sconto e la butto, rispettosamente, nella scatola gialla di Cartesio: sono per la raccolta differenziata, anche se sono praticamente, sinceramente convinto che noi dividiamo, ma nella discarica tutta la spazzatura arrivi non separata. Poco male, è già una bella cosa, di questi tempi, sentirsi con la coscienza pulita.



Quando arrivo a casa la scena si ripete sempre uguale.
arrivo la portone, mi frugo in tasca e/o nello zaino alla ricerca delle chiavi, apro il portone, salgo le scale e, con malcelata noncuranza, solo con un'occhiata sfuggente, di tre quarti, allungo lo sguardo nella direzione della cassetta. quando la scorgo vuota entro nell'ascensore con un sospiro di sollievo. Ci sono delle volte in cui mi dimentico di guardare chiamatelo subconscio, chiamatelo come volete, ma non me ne sento in colpa: in fondo, se c'é qualcosa, poco male, la ritroverò; se, poi, qualcuno la volesse rubare, che ci potrei fare?
Il postino che serve la mia zona è da sempre lo stesso. Negli anni si deve essere fatto i soldi, perché ha persino cambiato bicicletta. E' piccolino, un accenno di pinguedine, sempre sorridente. Da quando lo conosco ha sempre una cinquantina d'anni.


Qualche mese fa l'ho bloccato per strada: "Senta - gli ho detto - me lo vuole fare un grande favore, un enorme regalo? Non mi metta più corrispondenza nella buca. Le prometto che a fine anno le regalerò comunque un panettone, il prossimo anno non più uno riciclato dal Natale precedente: uno nuovo, con data di scadenza a venire. Mi dirà lei se lo vuole glassato, con o senza uvetta, con o senza canditi. Un pandoro: preferisce un pandore? Solo, per favore, non più corrispondenza!".
Avevo anche pensato di togliere la targhetta col cognome, di bloccare la fessura col nastro adesivo.
Ma una cosa è il dire, l'altra è il fare. Chi di noi, dopo tutto, non preferisce rinviare a domani quello che dovrebbe e potrebbe fare oggi?

Per farla breve, lunedì 27 si ripete, la solita scena: arrivo a casa, apro il portoncino, salgo le scale e....ahi, ahi, ahi, dalla buca delle lettere mi occhieggia ammiccante una busta bianca. La cosa che mi preoccupa è che anche in altre cassette giacciano altre buste, ugualmente bianche, tutte sghignazzanti, infide, sinistre.
Fossero colorate sarebbero reclame, fossero cellophanate sarebbero bollettini postali di qualche opera missionaria, fosse un ciclostile battuto a macchina sarebbe la solita lettera della parrocchia, fosse, fosse: il fatto è che non è.
Anzi: è bianca!
Senza guardare il mittente, la tiro molto ma molto malvolentieri fuori dalla cassetta delle lettere.
Penso che potrei ancora essere in tempo per bruciarla e negare, anche contro ogni evidenza, di averla ricevuta, ma la donna delle pulizie è lì sulle scale. E mi saluta persino.
Sono in ascensore e mi sembra possa non essere una buona idea bruciarla mentre sono in ascensore. Non mi chiedete perché.
Arrivo all'ottavo piano, entro in casa.

Occhei, un lungo respiro, e apro la busta.
La carta intestata non lascia dubbio: l'amministratore del condominio.
Insomma, questo benedetto amministratore (non mi vengono in mente altri aggettivi) non trova niente di meglio che fare il conteggio degli arretrati delle rate di riscaldamento e mandarle agli inquilini: col bel tempo che fa in questi giorni!
Non guardo i ratei scaduti, mi concentro sulla cifra in grassetto, d'altra parte è la somma che fa il totale!
Per fortuna che mi sono seduto per leggerla.

Lo ammetto, la matematica non è mai stata il mio forte, potrei persino arrivare a dire che tutto il mio civvì scolastico è stato costruito per evitare, scansare, dribblare il numero, inteso proprio come un concetto ontologicamente a se stante. Anche quando nei negozi mi danno il resto, io vado sulla fiducia. ancora adesso io ragiono in lire, non ho mai avuto il tempo di adeguare il chip da lire in euro, quindi immaginatevi la doppia fatica di calcolare il resto e convertirlo in lire. Io, che ancora non capisco come funziona una macchinetta per il caffé, come posso sperare di capire qualcosa di misterioso, alchemico, mistico, iniziatico come la matematica?
Ma vero è che per fare la differenza tra il saldo delle rate per il riscaldamento e quello che ho in banca e, voglio esagerare, quello che ho nel portafoglio, beh, resta veramente ma veramente poco.
Lo so, lo so, avete un'idea del vostro eroe come associato ad aggettivi quale indistruttibile, ottimista, che getta il cuore oltre l'ostacolo (lo so che non è un aggettivo, ma rende l'idea); le lettrici potrebbero aggiungere simpatico e carino, ma chi sono io per dare loro torto?
Eppure, per un pur breve momento sono preso da un attimo di sconforto: sapevo che trovare lavoro, un qualunque lavoro sarebbe stato difficile, ma non credevo così difficile.
Il buon Froid (per i germanofili sarebbe più corretto scrivere Freud, ma io diffido profondamente del tedesco, una lingua per me ostica; lo credo che i tedeschi sono incazzati col mondo: immaginatevi voi se, appena nati, qualcuno vi parlasse come se leggesse dei codici fiscali, lo credo che si finirebbe per odiare tutto e tutti; come disse W.A.: "dopo 5 minuti che ascolto Wagner, ho l'impulso irrefrenabile ad occupare la Polonia", e come dargli torto?) direbbe che è stato il mio subconscio a rimuovere l'idea di pagare tutte le rate di riscaldamento: ma le prime due le ho pagate, poi me ne sono dimenticato (che ci crediate o no, o, almeno, speravo che l'amministratore si dimenticasse di me. Ma, probabilmente, non ha troppi condomini cui badare, o è un sadico: ecco, un sadico che parla in tedesco con pochi condomini cui stare dietro.


Insomma, la sensazione è quella di nuotare sotto la linea di galleggiamento in una piscina di letame (chiamiamola 'letame'): fino a che si riesce a trattenere il respiro non è male, o, comunque, ci si abitua.
Il fatto è che non so ancora per quanto riuscirò a trattenere il respiro.

"Che ti avevo detto? dannato postino! Il prossimo Natale niente panettone!"

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.


giovedì 23 aprile 2009

16. A quick one (una sveltina)







Continua la mia full immersion nel mondo dei call center.
E' buffo (quasi buffo): diplomato quasi col massimo dei voti, laureato persino col massimo dei voti, un più che decoroso civvì, un sorriso smagliante, da due anni cerco lavoro consultando tutti i giorni (con la sola esclusione della domenica, ma anche il buon Dio si dovette concedere un giorno di riposo), rispondo praticamente ad ogni tipo di offerta di lavoro, ma sembra che gli unici colloqui che riesco a spuntare sono adesso per i call center.

Meglio non pensarci e vado al mio appuntamento: via Valperga Caluso 18, società Ellison.
Questa volta, a scanso di equivoci, mi sono portato dietro il prezioso Tuttocittà, non si sa mai.
Con la metro scendo a Porta Nuova e, avendo un buon margine di tempo, decido di continuare a piedi.
Nel ventre dei portici di via Nizza contemplo ammirato i lavori per la metropolitana e sono tentato di fare come quegli anziani che si mettono vicini vicini agli operai per cercare di capire quello che fanno e, se del caso anche senza richiesta, dare consigli.
Corso Marconi, via Campana, via Morgari, via V. Caluso. Ecco: ci sono.

Risalgo via Caluso, individuo il n.18, una palazzina fatiscente, al limite dell'anomino, una decina di campanelli senza nome. Per fortuna c'é un'etichetta di traverso che recita Allison.
Sono talmente in anticipo che decido di concedermi il lusso di un caffé. Dico lusso perché di questi tempi autarchici anche un caffé per chi è da tanto tempo disoccupato un caffé diventa un lusso.
Soprattutto in zone che non conosco. Intorno a casa o in centro ho oramai una perimetria perfetta dei bar, delle condizioni delle toilettes e del costo dei caffé: ce ne sono da 90 cent, la maggior parte a 85 cent, qualcuno ad 80 cent, un paio azzardano, osano, l'euro, cifra tonda. Un bar di corso Vittorio si svende a 70 cent, a patto che la consumazione avvenga al banco ed in piedi.
Il caffé da Maicol a 50 cent è un lontano ricordo.
Da perfetto italiano medio al bar butto un'occhiata alla Gazzetta dello Sport che snocciala le solite inquietanti notizie sulla Giuventus.
Confesso che lo faccio più per riflesso condizionato che come tifoso: da quando arrivò la triade tutti sapevamo come sarebbe finita ed io decisi di non appassionarmi più alla Vecchia.
Ma sono quasi le 9.30 e ritorno sui miei passi e trillo il campanello.

Una voce stridula ed intermittente (il citofono è quantomeno approssimato, provvisorio) mi domanda cosa voglio.
Tanto pe restare sul generico e non disilluderla (o illuderla) le dico che sono lì per il colloquio.

Non faccio neppure a tempo a chiedere a che piano devo andare perché la comunicazione s'interrompe. Sarei tentato di risuonare, ma desisto; oramai quasi tutte le offerte richiedono la capacità di 'problem solving' e questa ben potrebbe essere una prova, la prima prova per l'ignaro candidato: si viene scartati se neppure si riesce a risolvere un problema tanto banale come capire a che piano a che porta si deve andare.
Me ne faccio una ragione (tanto ho visto quasi tutte le puntate del tenente Colombo), tiro un sospiro, mi faccio coraggio, mi armo di pazienza, insomma, salgo.

L'ingresso del palazzo non tradisce le attese: è fatiscente almeno quanto il campanello.

In effetti la cosa è abbastanza semplice o, comunque, più semplice del previsto. Rinuncio a prendere l'ascensore date le pessime condizioni dello stesso e salgo al primo piano.
La fortuna mi assiste (che voglia dire qualcosa) e si apre una porta. Sul campanello riesco persino a leggere il nome della società e, radioso come il sole, mi presento.

Cristina, la ragazza che mi apre, è una extra-extra large e, prima che abbia tempo di dire qualunque altra cosa (non che ne avessi), prende a scusarsi perché Elisabetta, con la quale dovrò sostenere il colloquio è in ritardo.
Poco male: uno dei vantaggi impagabili della disoccupazione è di avere molto, ma davvero molto tempo a disposizione.
Se l'ufficio-appartamento della MCM di via A. da Brescia aveva del provvisorio, qui mi aspetto di vedere uscire da qualche porta il proprietario dell'appartamento in ciabatte e vestaglia. Qui non solo gli infissi delle porte, ma tutto gioca sulle sfumature grigio topo.
Vengo fatto accomodare in una stanza sulla sinistra. Alle pareti un poster pubblicitario di Vodafone, sul tavolo è abbandonato qualcosa simile ad un piccì, non nuovo, questo no, ma neppure abbastanza vecchio da giocarsela come antiquariato.


Ad una sedia è seduta (per questo si chiama sedia) una ragazza che abbozza ad un saluto e la Cristina torna a scusarsi per il ritardo di Elisabetta.
Sono tentato di dirle che sono solo le 9.20, quindi, tecnicamente, l'Elisabetta non è ancora in ritardo, ma ho anche imparato che un bravo candidato non deve sollevare questioni inutili.
Capisco che la ragazza arrivata prima di me non deve essere molto loquace, quanto meno non a parole, visto che invia e riceve essemmesse ora sorridendo compiaciuta ora con espressione interrogativa.
Non ci sono riviste, alle pareti o fuori dalle finestre poco per non dire nulla, anzi, diciamo pure nulla con cui distrarsi per ingannare l'attesa. Per fortuna mi viene incontro un cane, una bastardone , un misto di qualcosa con qualcos'altro, ma dal muso simpatico che, scodinzolando, prende ad annusarmi. Spero solo che non mi scambi per un albero e, dal moneto che la ragazza continua a chattare, decido di grattugiare il cane.

Solo allora, Eleonora (la ragazza con tanto di cellulare) parla e, con tono appena appena freddo e con quel tanto di rancore che non si preoccupa di nascondere, dice: "prima che lei arrivasse faceva le feste a me!".
Il fatto che mi dia del 'Lei' un piccolopoco mi irrita, ma, già che ci sono mi viene da pensare "Ecchisenefrega?", ma sono un gentiluomo e abbozzo un sorriso.

Eleonora riprende a chattare.

Alle 9.30 si sente un'auto che arriva nel cortile interno, il cane va sul balcone a ballatoio e prende a guaire, abbaiare, ululare.
Dopo un paio di minuti fa il suo ingresso trionfale l'Elisabetta, che si distingue dalla Cristina perché è una extra large, ma il parrucchiere, lo deduco dalla improbabile tinta dei capelli che si va scrostando lungo il bulbo, deve essere lo stesso dell'Elisabetta.
Anche lei si scusa per il ritardo ed io mi accuccio per non aprire inutili ed oziose discussioni se due minuti si possano considerare un ritardo.

"Bene - esordisce l'Elisabetta - visto che siete qui tutti è due, faremo un colloquio di gruppo".
Mi sembra un'ottima idea, non originale, ma ottima questo sì!
L'Elisabetta non ha molto tempo da perdere: "Avete la partita I.V.A.? perché il titolare non vuole avere problemi ed il colloquio prosegue solo se avete la partita I.V.A.".


Non so se l'Elisabetta avesse altro da fare, ma l'Eleonora ed io le rispondiamo affermativamente e, quindi, il colloquio può, deve andare avanti.
L'Elisabetta sembra quasi contrariata, ma, fatto buon viso a cattivo giuoco, cerca una posizione comoda sulla sedia e prosegue.
"Dunque, avevamo come cliente Vodafone ('avevamo', quindi non l'hanno più) ma adesso stiamo cercando qualcuno per un altro cliente: conoscete Vitalift?".
Se lo conosco? Certo che lo conosco: basta girare, fare zapping, zappare sulle televisioni private e guardare el telepromozioni. Quando non si è ancora del tutto avvinti dalla noia, immancabile arriva Ettore Andenna. A quel punto uno si aspetta che presenti Giochi senza frontiere (c'é qualche altro motivo per ricordarsi di Ettore Ardenna? un mito dei nostri tempi) anche perché è a bordo di una vasca da bagno (magari qualche squadra ha deciso di giuocare il fil rouge) ed invece lui ti sorprende e presenta Vitalift.

Cos'é Vitalift? Cos'é Vityalift? Vitalift è il sollevatore da bagno, una comoda panchetta che si mette nella vasca da bagno (ecco perché c'é la vasca da bagno), aiuta ad alzarsi e sedersi, un nastro trasportatore che accompagna delicatamente sul fondo della vasca, con tanto di telecomando per facilitare la salita e la discesa, con tanto di consulenti per studiare la soluzione migliore, con tanto di agevolazioni per anziani e disabili. 'Vitalift: ti solleva la vita!'. Uno slogan tanto stupido, quanto efficace!

Mi limito ad un più generico e meno impegnativo: "Sì, lo conosco!".
Eleonora annuisce, ma è abbastanza chiaro che non ha la benché minima idea di cosa sia questo prodigio della scienza.
Continua l'Elisabetta: "Si tratta di gestire le telefonate in entrata per richieste di informazioni; il compenso è, per un full time di 6 ore al giorno, 6 giorni alla settimana, di 600 euro. Il periodo di formazione è di un paio d'ore il primo giorno. Domande?".

Incredibile: in e-care il periodo di formazione era di una decina di giorni, alla MCM si passava a 2 giorni. Qui sono sufficienti due ore!
E' evidente che cercano dei geni ed io non sono più tanto sicuro che mi possano prendere.

L'Eleonora la butta sul tecnico: se il lavoro si svolge lì, perché lei ha già lavorato lì vicino (mi sfugge il nesso tra le due cose), se si può lavorare anche solo 4 ora al giorno, perché lei ha lavorato lì vicino (il nesso prende a giuocare a nascondino), se si possono prendere permessi, perché lei ha lavorato lì vicino (machissene…), ... perché lei ha lavorato lì vicino (occhei, occhei, ho capito il concetto).
Io vado più sull'essenziale (noi maschi siamo per le cose essenziali): "Scusi, ma i 600 euro sono lordi o netti?".
L'Elisabetta, quasi come se la cosa fosse scontata, dà la risposta giusta: "Netti!".
Risposta esatta, perfetto, tanto mi basta.

Il colloquio è durato meno di un quarto d'ora: non meno di dieci minuti, ma certamente meno di 15. Lo affermo con una sicurezza per me quasi insolita perché ho controllato l'orologio.

Quando usciamo, lungo le scale, l'Eleonora è perplessa: è abbastanza facile capire quando una ragazza è perplessa, non me ne vogliano le gentili lettrici.
Cerco di parlare del più e del meno: "Beh, pensavo peggio: è vero che l'orario di lavoro è lungo per 600 euri (sissì, 'euri': 600 è plurale di 1), ma dovendo gestire solo telefonate in entrata per un prodotto così, così, beh, così il vero rischio che vedo è vincere la noia".
Non credo fosse l'osservazione che l'Eleonora si sarebbe aspettata, ma, ragazzi, parliamo di 600 euri, ... netti!

Insomma, meno di 15 minuti per un colloquio: una sveltina!

Ho, comunque, la sensazione che la mia Odissea nei call center non sia finita.

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.

mercoledì 15 aprile 2009

15. Stupido io, stupido lui? Liberi tutti!


Uscendo dal colloquio con e-care non ho alcuna certezza che mi possano prendere.

Per fortuna mentre mi sto avviando alla fermata del pulman, vengo raggiunto da una telefonata.
"Buongiorno"
"Buongiorno" rispondo, cortese come sono che ogni tanto me ne stupisco.
"Abbiamo ricevuto il suo c.v., è ancora alla ricerca di un lavoro?".
Mi sembra sgarbato dire di sì, anche perché non sarebbe vero; potrei dire che sto valutando delle opportunità, ma quali opportunità?; e, poi, fare colloqui è pur sempre un modo per fare nuove conoscenze.
Quindi, ancor prima che la ragazza al telefono abbia finito la sua domanda, la blocco con un disponibile "Sì!".
La ragazza vorrebbe già spiegarmi qualcosa, ma le dico che ne avrà modo l'indomani.

E' mercoledì, l'appuntamento è per le 14 in via Arnaldo da Brescia.
Mi imbuto nella metropolitana, a porta Nuova mi imbarco clandestino sul 4 (la chiamano metropolitana leggera, anche se non ho mai capito cos'abbia di leggero) e, fiducioso, mi metto a leggere. Confido sulla mi innata memoria approssimativa, avendo una vaga idea di dove sia via da Brescia.
Arrivato all'altezza di corso Traiano (lo deduco dalla voce gracchiante che annuncia le fermate, volgo il mio sguardo a destra e vedo stagliarsi l'imponente entrata di Fiat Mirafiori.
Preso da un leggero dubbio, chiedo cortese ed affabile come solo in certi momenti so fare, ad un'anziana signora con le borse della spesa se ho già superato la mia fermata.
La signora si trattiene dal ridacchiare e dal darmi del ragazzino (a volte la grigia brizzolatura sulle tempie è di grande aiuto) e mi dice che devo risalire di 3-4 fermate.

Scendo al volo ed attraverso corso Unione piroettando atletico e felino piroetto, volteggio e dribblo tra le auto che sfrecciano (l'avreste mai sospettata tanta agilità nel vostro simpatico eroe?) per prendere al volo il 63.
Pur fiducioso nel mio innato senso dell'orientamento (anche se avessi fatto il boy scout ne sarei stato espulso per incapacità di orientarmi nei boschi) chiedo indicazioni all'autista. Effettivamente sono 3-4 fermate: la vecchietta non mi aveva gabbato, anche se la cosa le sarebbe stata facile, mandandomi chissà dove.

Scendo alla fermata dopo via Filadelfia e, per non incorrere in ulteriori errori, consulto l'enorme mappa alla pensilina della fermata. Mi aiuta una frecciona rossa che recita "Tu sei qui". Ne deduco che sono qui, lì.

Attraverso sotto una pioggerellina fitta ed insistente (e ben sapete come può essere infida la pioggerellina quando prende confidenza e fiducia in se stessa) attraverso Piazzale S. Gabriele di Gorizia, confesso che neppure sapevo esistesse, pur continuando a fare sonni tranquillissimi, ed imbocco via da Brescia. Che sia via da Brescia lo deduco dalla targa inchiodata all'angolo di un palazzo.
Dall'altra parte della strada la facoltà di Economia, già facoltà di Economia e Commercio, già ospizio Poveri Vecchi. Insomma, una zona colta, dove l'intellighenzia pullula, anche se forse adesso si sta riparando anche lei dalla pioggia.
Ovvio, non dovrei neppure dirlo, che quando guardo i primi numeri di via da Brescia sono all’altezza del 30. Dovete sapere che la numerazione inizia in Piazzale S. Gabriele, al punto che mi domando dove sia esattamente il piazzale. Ma non ho tempo, perché la ricerca mi farebbe arrivare arrivate in ritardo ed io odio arrivare in ritardo: potrebbe dare l'impressione che mi sia perso.

Via da Brescia 7: ci sono.

Suono al citofono e salgo agile come una faina le scale. Per fortuna devo arrivare solo al 1° piano.
Mi apre la porta una signora oversize, che, stando sulle punte dei piedi potrebbe tranquillamente arrivare al metro e sessanta, dai capelli una volta tinti di biondo (improbabile), ma traditi da un 5 centimetri di ricrescita.
Penso sia la segretaria e mi presento.
La cosa né la turba, né le interessa.
Mi fa accomodare e torna nella sua stanza. Ne deduco che lavora alla call center: non telefona, mangia, ma si siede di fronte ad una postazione con tanto di piccì.
Buono e rilassato mi siedo.
Nell'attesa sono tentato di cedere alle lusinghe di un caffé. Mi alzo, leggo un cartellino che recita 'la macchina non dà il resto. Mi risiedo.

L'ufficio è ricavato da una vecchia abitazione. Le porte sono ridipinte di un raggelante grigio topo. La porta di fronte a dove sono seduto credo nasconda la toilette, lo credo perché 2-3 ragazzi, a turno, entrano, sento lo sciacquone e ne escono più sereni di come sono entrati
Alle spalle di dove sono seduto una sala molto ampia, senza le porte, che lascia intravedere una quarantina di postazioni, non più di 5 ragazzi che chiacchierano amenamente tra loro e due finestre che si affacciano su corso Unione.

Aspetto paziente, mi guardo intorno. Si sente un solo ragazzo telefonare: all'inizio si presenta pacato e conciliante; via via la voce diventa più stridula ed aggressiva quando vuole sapere quanto la povera signora all'altra parte del telefono spende al mese in telefonate. La seconda telefonata è più rassegnata: l'interlocutore non spende più di dieci euro al mese, non ha e non è interessato ad avere internet, non guarda la televisione.
Dalla porta alla mia destra esce un ragazzotto con eskimo e tascapane (probabilmente un residuato bellico del '68) ed una graziosa ragazza bionda mi fa entrare.

La prima domanda è imbarazzante: "Abbiamo messo un annuncio per il call center ed uno per agente: lei per quale ha risposto?".
Mi verrebbe da dire che speravo, m'immaginavo lo sapessero loro, sarei tentato di rispondere "agente": "Chi, da piccolo, non ha mai desiderato fare l'agente segreto?". Ma ripiego per un generico e meno impegnativo "Esattamente non ricordo, ne ho mandati diversi (dire 'tanti' mi sembrava eccessivo e non mi va di eccedere con una ragazza appena conosciuta), ma potrei essere interessato ad entrambi".
La ragazza dice che lei è incaricata di fare i colloqui per il call center e mi spiega in cosa consista l'attività di un call center. Non che ci voglia molta fantasia e non è richiesta neppure tanta immaginazione.
Il cliente è Fastweb, le collaborazioni sono solo part time di 4 ore a circa 6 euro lordi l'ora.
Le chiedo cosa intenda per 'circa', ma se la cava con un sorriso.
Le dico che potrei essere interessato, in fondo, penso, con una settimana di lavoro mi pago il mensile del bus e tutto il resto è guadagno: grasso che cola!
"Ma, visto il suo curriculum, potrebbe essere l'ideale per la posizione di agente".
E' sempre incoraggiante sentirsi dire da una ragazza carina che sei un tipo 'ideale', quindi, per non deluderla, le dico che potrei (per non sbilanciarmi ripiego su un elegante condizionale) essere interessato.
L'appuntamento per i colloquio da agente è per l'indomani e, di fatti, l'indomani alle 11 sono di nuovo in via da Brescia, per non sbagliarmi al 7.

La ragazza tarchiata mi riaccoglie, la ragazza carina (quella che mi ha detto che sono un tipo 'ideale') mi dice che la persona con la quale dovrò sostenere il colloquio è in ritardo e se ne scusa.
Mi viene da dirle che non si deve scusare: "Mi basta il suo sorriso ed il suo numero di telefono", ma mi decido per un più generico "Non si preoccupi, forse sono io in anticipo".
Mi guardo intorno: i soliti 5 ragazzi di ieri, una trentina di postazioni lavoro vuote, la solita pioggerellina incalzante fuori dalle finestre che si affacciano su una giornata d'autunno primaverile.
Mi accuccio nella sedia del giorno prima.
Dopo una ventina di minuti suonano al citofono, aprono ed entra un ragazzo con jeans strappato in più punti, macchie alla conegrina (o, forse, candeggina), piercing sul lobo dell'orecchio, capelli ricoperti da una generosa dose di gel.
Beh, mi dico, se questo è qui per un colloquio, me la giuoco alla grande, non fosse altro perché quel gel gli intaserebbe la cornetta.
Torna la ragazza bionda che mi fa accomodare in un sala col tavolo da colloquio.
Di fronte al me il ragazzo gelato: non è lì per un colloquio, ma per farmi il colloquio; non solo, si presenta come il titolare della società.

'Azz!!!

Mi presenta brevemente ma con un certo entusiasmo la società: lavorano per Fastweb, l'impresa è in crescita, anche se da qualche mese alcuni soci se ne sono andati (credo, mi sembra, di sentire che gli scappi anche un 'bastardi!), nonostante la crisi il settore della telefonia non ne è stato toccato, anzi...
Gli agenti, al momento 3 o 4 (sembra che neppure lui ne sia così certo) operano in tutto il Piemonte, lavorano solo con clienti privati su appuntamenti che prende il call center.

Sarei tentato di domandargli 'quali appuntamenti?', visto che su una quarantina di postazioni ho visto solo 5 persone, una sola delle quali telefona e vista la concorrenza che anche, ma non solo, molti negozi di telefonia elettronica, ..., fanno, senza considerare che il contratto può essere concluso telefonicamente o via internet senza avere la seccatura di qualcuno che ti arrivi a casa.
Ma lui mi deve leggere nel pensiero, perché mi anticipa dicendo che il vero lavoro dell'agente è di procacciarsi gli appuntamenti tramite amici e parenti, mettendo locandine nei bar e negli esercizi commerciali, con attività di promozione negli esercizi commerciali, mentre - e qui mi rivela la sua strategia commerciale più segreta, dal che ne deduco di essergli simpatico - il punto di forza nei prossimi mesi saranno i punti di vendita improvvisati per strada. Avete presente la Lucy di Charlie Brown che col suo chiosco da psicologa lungo la strada?

E' così gentile che mi sento in dovere di fargli qualche domanda.

Mi permetto di chiedergli se pensa ci vogliano dei permessi per l'occupazione del suolo pubblico, ma mi rassicura rispondendomi che sta ancora lavorando ai dettagli del progetto.
Ad ogni buon conto, sulla base dell'esperienza maturato da quando è diventato imprenditore di se stesso, un agente che fa nulla guadagna mediamente 1.500 euro, basta darsi un po' da fare e si arriva tranquillamente a 2.500.
Mi chiede se ho l'auto e mi sembra troppo complicato dirgli che da aprile non posso più permettermi di pagare l'assicurazione e cha la batteria è scarica e che tale la lascio per evitare che me la rubino.
D'altra parte la domanda dava per scontata la risposta e mi sembra brutta cosa deluderlo. Quindi gli rispondo: "Certo che ho l'auto!".

Già che sono in vena di domande, esagero e gli chiedo se sono previsti dei benefit aziendali, tipo cellulare, telefono.
Mi accorgo di averlo preso in contropiede e quasi me ne dispiace.
Appena si riprende mi dice che non è previsto telefono aziendale, che ognuno usa il proprio; ma che si può avere il contratto Fastweb.
La cosa mi rassicura, perché almeno un contratto sarei sicuro di farlo sottoscrivere: il mio!
Mi dice anche per le trasferte sta pensando a qualcosa tipo Viacard, ma che dipenderebbe dal numero delle trasferte.
Mi accorgo e ne deduco che non è uno che pensa molto.

Restiamo intesi di risentirci e m'incammino sotto l'infida pioggerellina tormentato dalla solita domanda che mi pongo in questi casi: "Se gli dico che ho capito che mi sta prendendo in giro, sarebbe come dargli dello stupido; non dirglielo e continuare ad annuire, vuol dire che a passare per stupido sono io; ma se fosse vero quello che dice e promette, sono tutti degli stupidi a non crederci ed ancora di più sono stupidi quelli al call center che, pur potendo fare gli agenti e navigare nell'oro, si accontentano delle briciole!".

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.


martedì 14 aprile 2009

14. Primo della classe o perfetto italiota medio?



Martedì 14 aprile 2009

Sento che è arrivata la volta dei call center.
Con una certa sorpresa mi sono accorto che le chiamate per i colloqui arrivano a cicli.
C’è stata la volta delle assicurazioni, quella dei promotori finanziari, ora è quella dei call enter.
Il bravo disoccupato deve cercare di tutto, mettendo da parte l’orgoglio. In attesa del lavoro della vita la priorità è bloccare l’emorragia delle uscite, quindi qualsiasi opportunità è buona.
Da tempo ho imparato ad inviare curricula ‘tarati’ sulle offerte: di volta in volta rimuovo dal civvì base ora il ‘classico’ del liceo (troppo impegnativo), ora la laurea in giurisprudenza (troppo compromettente), ora lasciando nel vago le esperienze professionali.
Da oltre un anno ho sottolineato il particolare, non trascurabile, di essere iscritto alle liste di disoccupazione, e, con un certo orgoglio, ho inserito la pur breve – ma significativa – esperienza come cuoco da bar.

L’appuntamento con la e-care è per le 14.
Nei giorni passati ho avuto modo di sondare con google quanto riuscivo a reperire sulla società: siti e, soprattutto, blog. Il quadro che ne esce non è dei migliori, ma neppure dei peggiori. Tutto sommato, rispetto alle informazioni che ho raccolto sui call center, si naviga nella media. Il che, visti i tempi che corrono, non è nemmeno male. Eppoi, via, per chi ha affrontato colloqui con Mediolanum targata Berlusca tutto va bene.
Cerco di vedere il lato positivo del call center: ambiente giovanile, nessuna possibilità di carriera, stipendio alla fame (ma pur sempre un qualcosa che assomiglia allo stipendio), un posto di lavoro al coperto (circostanza non da poco), possibilità di nuove conoscenze.

Parto col dovuto anticipo: è sempre meglio non arrivare tardi! La sede del call non è così lontana, ma ci si deve arrivare col 62. ed il 62, per chi non lo sapesse, è un pulmann fetente: a leggere sulla tabella degli orari dovrebbe passare ogni 12 minuti nelle ore di punta, ogni 16 quando il traffico langue. E’, tuttavia, cosa risaputa, per chi lo sa (gli altri ne prendano nota mai ne dovessero avere bisogno) che il 62 passa quando vuole, quando capita, quando se ne ricorda, quando non ha di meglio da fare.
Per le 12, quindi, sono alla fermata. Tutto sommato non mi va neppure male: aspetto solo 20 minuti e, per ingannare il tempo, mi trovo a dare ragione ad una signora che si lamenta dei ritardi ‘come se la gente potesse aspettare i loro (ndr. dei conducenti) %$&§° comodi’.
Ovvio che il bus è stracolmo. Diversi studenti, molti extra-comunitari, almeno una persona che va ad un colloquio, che, poi, sarei io.
L’affollamento non mi è di fastidio, anzi.
Il pulman si lascia andare appesantito del fardello dei passeggeri lungo la discesa di via Pietro Cossa con una rapida chicane per inchiodare alla fermata/semaforo proprio prima della Pellerina. Con un ‘ooooooooooh’ i passeggeri ondeggiano per ricercare l’equilbrio e, appena, ritrovata una certa stabilità, è tutto un ‘scusa, scusa, scusa’, qualche garbato ‘mi scusi’, e, già che ci siamo, qualche imprecazione.
Il gruppo, poi, si ricombatta e tutti cercano una presa sicura, un appiglio d’emergenza perché il bus sfreccia – letteralmente – lungo il parco: visto che non ci sono fermate l’autista, di certo, ne approfitta per recuperare il tempo perso lungo la tratta.

In fondo la calca e la condivisione forzata di piccoli spazi è una delle poche occasioni che la nostra società ci offre per fare conoscenza, stringere nuove amicizie in questo mondo, in questa società che, altrimenti, ci spingerebbe all’isolamento. Mi viene da pensare che, forse, possano anche nascere degli amori inattesi.
Eh sì, mi viene molto da pensare in questi ultimi tempi: tanto di tempo ne ho.
Passata la Pellerina si entra nell’una volta famigerate Vallette, dove, voleva una vecchia leggenda metropolitana, una volta persino le auto della solerte polizia non si avventurassero che a due a due e se solo inviate per punizione.
La giornata è fresca e, se il mio orologio non è in ritardo – circostanza che non mi sento di escludere – posso anche permettermi il lusso di ingannare il tempo facendo due passi due.

Poco distante c’è un Lidl.

Ho sempre avuto, da esterofilo quale sono, una certa simpatia per gli hard discount. Ricordo che una volta, quando gli hard discount arrivarono in Italia calando dai Paese del nord, presi a frequentarli. All’inizio erano frequentati quasi esclusivamente, anzi, diciamo esclusivamente da stranieri ed io avevo la curiosa sensazione di essere l’unico bianco.
Poi, i tempi cambiarono: arrivò la prima crisi, poi la seconda, quindi la terza. Adesso non so più a quale crisi siamo, ma sono quasi sicuro che la cifra sia a doppio numero.
E, man mano, arrivano non solo i bianchi, ma persino gli italiani. Qualche anno fa ricordo che in un hard del centro vidi anche un paio di professori universitari che, per passare inosservati, cercavano di darsi un’aria disinvolta, indossando la maschera del sociologo che studia il comportamento umano o quella di chi si trova lì per caso.
Entro, quindi, nel Lidl. Ho nulla da comprare, è solo per fare due passi: c’è chi fa le vasche in centro, chi jogging nel parco, chi si prende un cane per uscire la mattina al gelo persino prima che aprano le edicole e gode se piove o tira il vento: io inganno il tempo girando per mercati, supermercati ed hard discount.
E, poi, i single lo sanno: i supermercati possono essere l'occasione per fare incontri interessanti!

Esco.




La giornata è fresca, uno sprazzo di primavera.
Oserei dire che fa persino un accenno di caldo. Le persone che incrocio sono confuse: c’è chi, non fidandosi, indossa ancora il piumino, chi è armato di ombrello (per la serie ‘ non si sa mai’), alcuni giovani azzardano dei bermuda senza ancora osare le infradito.
Nel vedere tutti questi giovani in giro durante un orario che dovrebbe essere scolastico, mi verrebbe voglia di riprenderli e rimandarli i classe, preoccupato che siano loro la gioventù che col proprio lavoro un domani dovrebbe garantirmi una pensione.
Ma, poi, mi viene da pensare che, tanto, alle pensione la nostra generazione non arriverà mai.
Non io, di certo.
Ve l’avevo detto che – sarà la primavera – mi viene da pensare molto assai!

Con la dovuta e meditata calma risalgo via Pianezza, ché, tanto, devo arrivare al 289.
Man mano il paesaggio da urbano diventa sub-urbano, per lasciare il posto a vecchi muri gonfi di umidità che una volta circondavano improbabili depositi di merce varia ed assortita, un abbozzo di parco senza panchine. Una striscia di strada che si allunga laggiùùùùùùùùùuuuuuuu, verso un lontano orizzonte.

Più mi incammino, più inizio a preoccuparmi, non fosse altro perché in lontana inizio a vedere campi.
Poi, all’improvviso, alla mia sinistra vedo stagliarsi una costruzione di notevole dimensioni, bianco bianco, nuovo nuovo. I vetri sono fumeé, sulla sinistra un bar che si intuisce animato, sulla destra una filiale del san paolo, pardo, di intesa-san paolo ed intuisco (ma lo sapevate già che sono un tipo intuitivo) che anche qui è arrivata la civiltà. Attraverso un colonnato che unisce la parte destra con la sinistra (questa sì che è unità nazionale) si intuisce un cortile centrale gradevole.

Ne approfitto per entrare nell’animato bar di cui sopra per prendere un caffè e per andare a pettinarmi (e sì, la prostata non è più quella di una volta!).
Il cortile è gradevole, nessuna pianta, questo è vero, ma intorno si respira un’aria di nuovo senza per questo essere opprimente. Mi siedo su una panca. A dire il vero è un blocco di pietra di piccole dimensioni, ma vedendo che altri ragazzi sono seduti sopra altri blocchi, il vostro, l’intuitivo, ne deduce che trattasi di panche.

Tiro fuori dallo zainetto e mi sprofondo nella lettura.
Il bravo disoccupato si reca sempre ai colloqui armato di un libro.

Alle 13.55 insieme ad altri mi avvicino al citofono e, proprio perché si chiama citofono, citofoniamo. Non risponde nessuno.
Ricitofoniamo ed ancora niente.
La nostra attenzione viene attratta da un minuscolo foglietto scarabocchiato che avvisa che l’ufficio riapre alle 14.
Ci si fa coraggio pensando che non sono ancora le 14: se sono così precisi la cosa ci tranquillizza perché dimostra che la società è seria.
Alle 14, effettivamente, qualcuno risponde ed apre la porta.
Una ragazza ci avvisa che entro breve sarebbe arrivata un’altra ragazza ed, effettivamente, di lì a poco arriva una ragazza che ci introduce nella sala dove si sarebbe svolto il colloquio che, a questo punto anche i meno intuitivi tra voi lo avranno capito, sarà un colloquio di gruppo.
Entriamo in diligente fila indiana e mi verrebbe da proporre, a mo’ di fantozziana festa di capodanno, di improvvisare un trenino ciuf-ciuf. Ma desisto.
La ragazza, Elisabetta, si presenta, qualificandosi come psicologa (‘azz, hai detto niente) e presenta Stefania, la praticante-aiuto-psicologa.

I saluti di accoglienza di rito come una brava padrona di casa e, per far capire che è lei che conduce il giuoco, brucia tutti, chiedendo se sappiamo che il lavoro che viene offerto è in-bound, ma, soprattutto, se sappiamo che cosa vuol dire in-bound.
Effettivamente so cos’è l’in-bound, ma già sono il più anziano della quindicina di presenti e non mi sembrerebbe bello fare il saputello: ho sempre odiato i saputelli.
Non la deve pensare così il ragazzetto alla mia sinistra che, alzata la mano, spiega cos’è l’in bound e si becca il plauso dell’Elisabetta.
A me i primi della classe non sono mai piaciuti, è più forte di me.

Ma l’Elisabetta ci prende gusto e rincara la dose: ‘conoscete già la e-care?’.
Effettivamente mi sono informato, e mi torna in mente che la e-care bla-bla-bla fa parte del gruppo Ciarrapico. Non mi sembra carino né tantomeno elegante accennare seppur velatamente ai passati trascorsi giudiziari del gruppo Ciarra.
Desisto, io. Non desiste il primo della classe che inalbera nuovamente il braccio (lo ammetto mi viene la tentazione di spezzargli il braccino) e con vocina mbirignao snocciola la lezioncina: scommetto che alle elementari, alle medie e, molto probabilmente anche alle superiori, era il classico ragazzino che portava il regalo alla maestra.
L’Elisabetta è compiaciuta da tanto zelo e lo addita ad esempio. Come se non bastasse, scotendo la testa a mo’ di rimprovero, sussurra fredda fredda :’Ma ragazzi, quando andate ad un colloquio dovreste, per lo meno, informarvi prima su dove andate. Vabbé. Meno male che almeno uno di voi lo sapeva’.
Lo stronzetto sorride. Io sorrido allo stronzetto e mi verrebbe voglia di stringergli la mano, se non altro per stritolargliela, ma temo che, se non ci riuscissi (si sa che i giovani d’oggi sono molto più vitaminizzati di quelli di una volta), ne rimedierei una brutta figura.
Quindi desisto e ripiego abbozzando un sorriso.

L’Elisabetta riprende in pugno la situazione e presenta il lavoro: si tratta di un in bound (e, altrimenti, perché ci avrebbe chiesto se sapevamo di cosa si trattasse?), su turni di 24 ore, 5 giorni la settimana, forse 6, per la vodafone, 6 euro lordi l’ora, formazione di 5 giorni per otto ore al dì a 3,50 euro l’ora, con buoni pasto di 3-4 euro (che verranno rimborsati a chi supererà il test dopo il periodo di formazione entro 30-60 giorni).
‘Vi interessa il lavoro?’ chiede.
Il mio cuore sussulta, avrei voglia di saltare sui tavoli ed improvvisare una tarantella, buttare coriandoli in ogni dove, strombazzare una sirena da stadio.
Ma sono timido, lo sapete, mi conoscete e desisto.

Il primo test è un test alfanumerico tipo battaglia navale.
Ne ho già fatto uno e vado abbastanza sul sicuro.
Solo verso a fine l’occio destro decide di giocarmi un brutto tiro e mi viene un attacco di rapida, ma intensa e dolorosa congiuntivite. Per fortuna (massì, chiamiamola fortuna) non è la prima volta e non mi lascio prendere dal panico, abbandonandomi a urla e strepiti, lasciandomi cadere per terra in un rantolo modello attacco epilettico, come pure vorrei fare, ma col solo occhio sinistro (per fortuna ne ho due (di occhi, ma non solo di occhi, anche di orecchie, di mani, di braccia, persino di piedi e di qualcos’altro; di naso, invece, uno solo). Insomma, mi consolo pensando, stoicamente, che mi sarebbe potuta andare peggio.

La seconda parte del test richiede la risposta ad una serie di possibili situazioni.
Situazione 1: il tuo responsabile al call ti riprende per un motivo che ritieni ingiusto; come reagisci?
Beh, mi viene istintivamente da pensare che è uno *^?&%%$, che potrei – appena se ne presenta l’occasione – seguirlo in bagno e trasformarlo in una maschera di sangue ché neppure i suoi cari potrebbero riconoscerne la salma, che potrei rigargli l’auto, bucargli le gomme e, ma solo dopo, dare fuoco alla carcassa.
Cerco di restare sul generico e scrivo qualcosa del tipo: non me la prendo, ma ,appena se ne dovesse presentare l’occasione e privatamente (non in pubblico, di fronte a terzi) gliene chiederei il motivo, pensando che, comunque, visto che lui ha esperienza, potrebbe avere ragione.
Situazione 2: sono subissato di chiamate, mentre due colleghi se ne stanno amenamente chiacchierando senza fare un )(&/(&, pardon, senza fare niente; che fai?
La tentazione è di scrivere che, dopo averli, presi a sberle, potrei prenderli per i capelli sulla nuca e sbattere le loro esimie facce di =(/%&%T& l’una contro l’altra fino a trasformarle come delle angurie lasciate cadere dal decimo piano (avete presente l’effetto?).
Propendo per una soluzione più soft e scrivo, con bella grafia: cerco di sbrogliare la situazione e, col dovuto garbo ed appena se ne presentasse l’occasione, con parole educate e gentili cercando di non sbagliare neppure un congiuntivo, cercherei di far capire loro che il lavoro non svolto da alcuni ricadrebbe sugli altri colleghi. Dopodiché, per sdrammatizzare, offrirei loro un caffè, o un tè, o una gassosa,o, perché no, un chinotto.

Alla domanda ‘perché vorresti lavorare in un call center, non riesco proprio a scrivere – giuro che ci ho pensato, ma il braccio, quello destro, mi si è paralizzato – che adoro il call center; sono tentato di fronte all’opzione ‘perché spero di conoscere una ragazza carina, simpatica, intelligente e di facili costumi’, ma, poi, mi rendo conto che l’Elisabetta si renderebbe conto della str()&%)?: d’altra parte avete mai conosciuto una ragazza così? Parliamo di scienza, non di fantascienza! Insomma vado su una risposta classica tipo ‘perché ho bisogno di lavorare’. ‘Ah, sissì – mi dico – sempre meglio essere sinceri!

Sono le 14.30.

Il test è finito.

Ordinatamente, sempre in fila indiana, con la mano destra sulla spalla destra di chi ci sta di fronte, con passo lento e ritmato tipo legione straniera alla sfilata del 14 luglio usciamo dalla sala, ci si accomoda sulle sedie disposte lungo il muro, il corridoio, la saletta invero piuttosto ampia dell’ingresso ed in buon ordine si aspetta di essere richiamati per il colloquio individuale.
Io mi metto di buon grado sulla mia sediola, di fronte alla macchina del caffè –caffè lungo-caffè corto-caffè cortissimo-caffè con cioccolata-cioccolata con caffè-caffè con latte-latte con caffè-solo-latte.
Alla mia destra un ragazzone enorme, con gambe enormi costrette dentro pantaloni strettissimi, la camicia in puro acrilico dai disegni tanto improbabili quanto inverosimili. Non è agitato: è agitatissimo: ballonzola aritmicamente le gamboccione, dimena i gomiti tenendo ferme le mani sulle ginocchia, penso, spero per arieggiare le ascelle: chi non conosce i deprecabili e deleteri effetti del caldo, financo del primo caldo combinato sull’acrilico sulle ascelle?
Il ragazzo di fronte a me, invece, sembra il candidato ideale per un call center: resta per oltre 90 minuti al cellulare. Ho persino il dubbio che la telefonata sia simulata, ma che pensi di essere osservato dall’Elisabetta e, in tal modo, cerchi di mettersi in buona luce.

Tiro un bel sospiro e mi risprofondo nella lettura.
I primi colloqui durano (lo dico perché li cronometro) la bellezza di 20 minuti, intervallati da 5 minuti d’orologio di pausa.
Per fortuna ho di fronte a me un centinaio di pagine prima della fine del libro e, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, mi dico che avrò modo di dedicarmi alla lettura: sia resa lode a Gutenberg! Sempre sia lodato.
Per fortuna ancora maggiore dopo la seconda ora i colloqui iniziano a durare 15 minuti e dopo un’altra mezz’orata solo più una decina.
Inizio a domandarmi con quale ordine si venga chiamati: alfabetico? Per risultato al test? Colore dei capelli? Bellezza? Età? Casualità?

Alle 18.15 arriva il mio momento.

Le due esaminatrici sono palesemente stanche, sfatte, distrutte. O, almeno, è questa l’impressione che danno. E' vero, potrei approfittarmi di loro, ma non vedo l'ora di andarmene e neppure sono granché.

Il colloquio dura giusto 5-6 minuti.
L’Elisabetta si fa le domande e si dà le risposte: è interessato al lavoro? Può iniziare subito? È disposto a lavorare su turni?
Sìsìsìsìsìsì.
Stretta di mano ed avanti un altro.
L’altro è un’altra ed è l’ultima.
Mi rincuoro: se sono vere alcune delle ipotesi che avevo immaginato sull’ordine di chiamata non sono né il bello, ma neppure il più brutto; non ho fatto il test migliore, ma neppure il peggiore; non ho i capelli più biondi, ma neppure i più neri.

Un perfetto italiota medio.

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.


mercoledì 1 aprile 2009

13. Uno contro sei



L’appuntamento è mercoledì alle 11.30, in via Pio VII.
La giornata è grigia. Pioviggina in modo fastidioso ed inopportuno. Non abbastanza per l’ombrello (che, intanto, non porto mai con me: quando lo faccio li perdo, immancabilmente).
Con un certo disappunto mi accordo di aver dimenticato la t-shirt per il bar, anche i cuochi hanno il loro look; d’altra parte, in giacca e cravatta mi sentirei fuori luogo.

La mezz’ora di anticipo mi permette di fare una puntata in un supermarket di corso Traiano. Tra i vari scaffali individuo delle magliette in offerta speciale, circostanza – l’offerta speciale – che giunge opportuna.

Un dubbio: M o XL. Chiedo consiglio ad una commessa che mi suggerisce la M: “va bene – le dico – se, poi, non dovesse andare bene torno e me la prendo con lei”. Lo sguardo le sprofonda in una maschera di sconforto e sento il bisogno di rassicurarla, dicendole che stavo scherzando.
La tentazione di lasciarla col dubbio era forte, ma, andando ad un colloquio è bene non rischiare con la buona sorte.

Arrivo all’agenzia puntuale, ma che dico puntuale, puntualissimo.

Mi fanno accomodare, prendo in mano il libro che prudentemente mi ero portato dietro ed inizio a leggere con la convinzione di calarmi nella parte del postulante impegnato.
L’agenzia dell’assicurazione è un perfetto open speis (si può anche scrivere space), luce diffusa calda ed accogliente; il personale alle scrivanie è composto di giovani impiegate.
Dopo mezz’ora mi complimento con me stesso per essermi portato da leggere, dato che il sig. F. arriva alle 12.15, scusandosi per il ritardo.

“Niente, niente” rispondo con un sorriso, e, solo per un momento mi viene da domandarmi cosa avrebbe pensato lui se io fossi arrivato con 45minuti45 di ritardo; ma è un pensiero che tengo per me.
Avendo il F. notato che durante l’attesa ingannavo la stessa leggendo, un po’ per cortesia un po’ per ingannare l’attesa di fronte alla porta dell’ascensore, mi domanda cosa io legga in genere.
Non sapendo cosa lui legga e per restare sul vago, rispondo un generico “Un po’ di tutto”, risposta assolutamente generica che va bene in qualsiasi situazione.
Visto che gli ascensori hanno la spiacevole abitudine di essere drammaticamente lenti e dato che esiste niente di peggio del silenzio che accompagna il rito dell’ascensore (per la serie ‘come dare un senso al concetto di eternità’), ricambio la cortesi chiedendo cosa lui legga.
Il F. mi ricorda di essersi convertito in tarda età alla Chiesa Valdese (ama ricordarlo, non ho ancora capito se a se stesso o agli altri) e che in questo momento sta leggendo un libro di Kung: “Lo conosce?”.
Come direbbe il mai dimenticato Dino (ndr. Meneghin) le palle vanno colte al balzo, ed io rimbalzo (dentro di me, perché saltare in ascensore dicono essere pericoloso ed io non ho voglia di smentire questa leggenda urbana) e, con falsa modestia: “Mah, so solo che Hans Kung, nato in Svizzera nel 1928, venne nominato da Giovanni XXIII consulente teologico al Consiglio Vaticano II, ma, per le sue posizioni, gli venne interdetto l’insegnamento all’Università di Tubinga”. E, poi, per ridimensionare la situazione, “Ho letto solo ‘L’infallibilità’ del 1977, ‘Dio esiste?’ (1980), ’24 tesi sul problema di Dio1 (1980), ‘Vita eterna’ (1983), ‘Cristianesimo e religione cinese’ (1989). Attualmente interdetto a divinis dall'insegnamento presso l'Università cattolica di Tubinga”.
Il F. si dice favorevolmente impressionato, anche perché, mi ricorda, la persona che stanno cercando, dovrà gestire una clientela di alto profilo ed avere una buona cultura.
Occhi, fino a questo punto ci siamo. Mi sento come in quella pubblicità di qualche anno fa il protagonista vedeva aumentare il proprio punteggio per ogni mossa azzeccata nel primo appuntamento con la ragazza.
Arriviamo al 4° piano, una rampa di scala, ma quello che mi aspetta non è il sottotetto che, dati i precedenti colloqui, mi sarei aspettato.
L’ambiente è elegante, le vetrate si affacciano sul un balcone con piante vere, anche le piante nella sala dove mi chiede di attendere un attimo sono vere.
Equimicasischerza.

Dopo un paio di minuti mi fa entrare nella sala riunioni, dove mi presenta, nell’ordine, i 3 soci, il direttore commerciale, l’account.
Sorridono tutti e. già che ci sono, sorrido anch’io.
C’è anche un elegante tavolo col piano di vetro, vero anche quello.
Dopo le strette di mano di tiro di rito, tutti propongono di scendere a prendere un caffè, e chi sono io per oppormi?
Rampa di scale, ascensore, bar, caffè, sigaretta.
Sulla sigaretta ci avrei giurato, dato che già in un incontro precedente il F. era stato assalito da un attacco per astinenza da nicotina e, incurante del freddo, era uscito sul balcone per superare la crisi. Io, per inciso, avevo appena avuto il tempo di rollarmi la mia di sigaretta (e che vi era venuto in mente, dopo tutto era un colloquio) mentre lui aveva già finito la sua.

Questa volta, comunque, ho il tempo di fumare, anche se, per prudenza, avevo rollato poco tabacco.
Ascensore, quattro piani, rampa di scale.
Io ne approfitto per fare conoscenza con uno dei soci e dimostro tutta la mia affabilità.
Sento come lo scampanellio del flipper mentre la pallina rimbalza ed il punteggio sale.

Sala riunioni.

Uno contro sei.




Decido di non guardare l’orologio, sapendo già che arriverò al bar col dovuto ritardo.
Non mi spavento certo per dover affrontare un prevedibile fuoco incrociato e ringrazio i tanti colloqui affrontati, considerandoli un’ottima palestra.
Il F. mi fa una presentazione di tutto rispetto e me ne sento quasi lusingato.
Il direttore commerciale prende in mano la situazione e, sfoderando un sorriso come silo un direttore commerciale sa fare, mi invita ad illustrare il mio curriculum.
Come prima domanda mi sembra abbastanza facile, quasi facile.
Alla fine mi sembra di essermela cavata abbastanza egregiamente, niente boria né spocchia per i miei precedenti, ma nemmeno indulgo nello svilirmi: insomma, quella che alcuni chiamerebbero la via di mezzo.
Il F. riprende in mano la situazione e illustra i tre progetti sui quali stanno lavorando e conclude nel ritenere che la mia figura potrebbe corrispondere a quello che stanno cercando.
Inizia la prevedibile girandola di domande.
Il solo che resta in silenzio giochicchiando col cellulare è l’account. Ma, mi dico, è prevedibile: per lui queste riunioni sono tempo sottratto ai mille contratti che nel frattempo potrebbe concludere.
Pian piano le domande si concentro sull’ambito assicurativo: in fondo sono sei assicuratori.

Sono quasi le 13 ed anche gli assicuratori sentono i morsi della fame.

Per evitare di iniziare a sentire gorgoglii di stomaco stile ruggito di leone nella savana, decido di dare risposte precise, ma brevi.
Capisco che stiamo arrivando al termine dell’incontro.
“Bene – dice con la dovuta enfasi il direttore commerciale col sorriso che nel frattempo non ha avuto il minimo cedimento (qualcuno potrebbe sospettare che si tratti di una paresi, ma, se non altro, è funzionale al ruolo) – ci parli dell’esperienza in Alleanza che, sicuramente, è quella che più potrebbe interessarci”.
“Ahi, ahi”, penso tra me e me.
E’ bene, nei colloqui di lavoro, non parlare mai male delle precedenti esperienze, potrebbe dare una brutta impressione, come dire “Se l’esperienza è finita non è colpa mia, ma degli altri che erano brutti e cattivi”.
Ma come spiegare loro che il mio responsabile ‘fregava’ i clienti ai suoi sub-agenti? La cosa potrebbe anche essere trascurabile, ma in quell’occasione io ero uno dei sub-agenti.
Prendo le cose alla larga, larghissima. Evito di fare riferimento a nomi ed a situazioni particolari, alludo alla sottrazione di clientela e cerco di riparare in corner, parlando anche di una diversa etica del rapporto con la clientela, che, per certo, il mio ex responsabile non aveva. Anzi, il semplice accenno gli faceva venire attacchi di orticaria, blocco della deglutizione, attacchi di ansia e di panico, sudorazione, visini mistiche.
L’idea del richiamo all’etica mi sembrava geniale, anche considerando che il buon F. ama ricordare in ogni occasione la sua conversione religiosa: “Almeno lui, mi dico, sarà dalla mia parte”.
E, se i soci sono suoi soci, applicando un banale sillogismo, anche loro saranno (chi più chi meno) in un’ottica simile.
D’altra parte anche il Alleanza l’Agente supremo, l’agente degli agenti, mi aveva più volte illustrato l’importanza di non ‘gabbare’ i clienti: ti porti a casa un contratto (e la provvigione), ma ti farai in breve terra bruciata: fai l’interesse del cliente e, non solo lui sarà più disponibile per nuove polizze, ma ti presenterà amici, parenti, amanti.
Ach, devo aver sbagliato qualcosa. Non sempre i sillogismi sono corretti. D’altra parte, 1. se Socrate è un uomo 2. se Socrate è omosessuale 3. tutti gli uomini sono omosessuali.
All’improvviso mi sento fissato da 12 occhi 12 che mi guardano, mi fissano, mi trapassano, come se in un raduno del ku klux klan si accorgessero che, una volta scappucciati, un di loro è un nero; di più, un nero, omosessuale, ebreo e comunista.
Sento di aver detto qualcosa di sbagliato.
Per cercare un minimo di comprensione mi volgo verso il F., ma il F. ha abbassato lo sguardo e ciondola mestamente il capo e par che dico “io non lo conosco”.



E mi accorgo che le cose mi sono sfuggite di mano quando uno dei soci conclude l’incontro dicendo: “F: ci ha detto che, data la sua situazione, lei (cioè io) preferirebbe un fisso; ma se le porponessimo solo provvigioni?”.
Poco ci manca che il sig. F. mostri tutta la sua disapprovazione per la mia presenza, mi rinneghi e si alzi in piedi tuonando: "Ma chi ha osato portare costui al nostro cospetto?".

Come disse non mi ricordo più chi “Tutto è perduto fuorché l’onore” e cerco di uscirne con eleganza: “I progetto che mi avete illustrato sono sicuramente di mio interesse ed apprezzo la serietà della vostra società e la vostra; certo un anno fa avrei potuto affrontare anche un lavoro con sole provvigioni, ma, in questo momento, non potrei”.
Poi, per rigirare la frittata (ho o non ho fatto il cuoco nell’ultimo mese? Sarà colo nella cucina di un bar, ma pur sempre cuoco): “D’altra parte non credo che un commerciale lavorerebbe tranquillamente senza avere una minima tranquillità economica. Credo ci sia niente di peggio per un potenziale cliente del trovarsi di fronte un commerciale agitato con l’ansia da prestazione”.

Insomma, cadere sì, ma in piedi.

Esco. Ha quasi smesso di piovere.

Risalgo corso Traiano e, prima di arrivare alla fermata del 4 in corso Unione, entro in un bar.
Ordino un caffè e cerco la toilette. Sulla porta del bagno campeggia un minaccioso cartello con scritto a caratteri cubitali GUASTO.
Scambio col barista l’occhiata segreta di chi lavora al bar (occhiata che nulla ha da invidiare alla stretta di mano massonica né alla strizzatine d’occhio dei frequentatori di un locale per scambisti) e mi fiondo nel bagno che, scopro, ha nulla di guasto.
Come Superman nella cabina telefonica, con altrettanta capacità, velocità, rapidità, destrezza, combinazione di movimenti, insacco (proprio nel senso di ‘metto nella sacca’) abito, cravatta, scarpe ed indosso il mio completo da perfetto addetto cuoco.
All’uscita sento il barista che dice alla giovane cameriera “equestochè?vavvedèchefinehafattoquelaltro”.

Arrivo alla fermata ed eccolo avvicinarsi, il 4.

Beh, ho neppure fatto troppo tardi.

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.