Premessa
Non so a voi, ma a me, con la bella stagione, piace fare quattro vasche in centro. E non è certo il tempo che mi manca.
L'altro giorno, per esempio, stavo facendo un paio di bracciate in via Roma quando, all'improvviso, vedo dall'altro lato della strada un viso che mi sembra di riconoscere, anzi, ne sono sicuro: lo riconosco: è mia zia!
Dire 'zia', in verità, è una parola grossa, ai limiti dell'improprio: io l'ho sempre chiamata 'la sorella di mia madre'; è il massimo che le posso concedere.
Per me il concetto di parentela è, o dovrebbe essere, qualcosa di più profondo, che va oltre un vago indizio di parentela che pure farebbe la gioia di Mendelson, per coinvolgere un insieme di emozioni di vissuto comune, di ricordi della famiglia.
Ma di cosa sto parlando: questi non sono i parenti: sono gli amici. Vabbé, fate conto che stessi scherzando: sono di spirito faceto ed ilare, io.
E, poi e d'altra parte, chi sono io per parlarne: mi chiamo Romolo e, storicamente parlando, Romolo era fratello di Remo (vi risparmio la battuta che mi accompagna da una vita). Vorrà pure dire qualcosa?!
E, soprattutto ed ancora, di chi parlo: ricordo che sin da piccolo, quando mia madre mi accompagnava in campagna il fine settimana per visitare sua madre e sua sorella, ebbene, sino a quando ebbi 12-15 anni ero talmente a disagio verso quelle due persone che neppure riuscivo a dare loro del 'tu', ma ripiegavo strategicamente su frasi generiche che avevano a che fare, per lo più, col tempo.
Ecco, questo è il mio rapporto coi parenti di mia madre.
E' vero, convenzionalmente ci lega il cognome, ma lei 'indossa' quello del marito e ne mena vanto, quindi non me ne faccio un cruccio.
E, soprattutto ed ancora, di chi parlo: ricordo che sin da piccolo, quando mia madre mi accompagnava in campagna il fine settimana per visitare sua madre e sua sorella, ebbene, sino a quando ebbi 12-15 anni ero talmente a disagio verso quelle due persone che neppure riuscivo a dare loro del 'tu', ma ripiegavo strategicamente su frasi generiche che avevano a che fare, per lo più, col tempo.
Ecco, questo è il mio rapporto coi parenti di mia madre.
E' vero, convenzionalmente ci lega il cognome, ma lei 'indossa' quello del marito e ne mena vanto, quindi non me ne faccio un cruccio.
Svolgimento
Novembre 2008
E' una giornata uggiosa, come direbbe il Battisti. Non intendo il Cesare B. e nemmeno quello che si fa le vacanze in Brasile per non rientrare in Italia. Intendo Lucio B., quello che, se solo ne avessi conosciuto le canzoni da adolescente, mi avrebbe potuto aiutare per 'rimorchiare' (si dice ancora così?) nelle interminabili serate passate a gorgheggiare in riva al mare alla luce dei falò). Ma io ascoltavo Guccini, i Deep Purple, i più melodici erano i Genesis: poche chances, poche ciancie: un vero autolesionista!
Per sfuggire alla noia della mia ultima esperienza nella galassia assicurativa che volgeva inesorabilmente al termine, mi ritrovavo a fare due passi in p.za s. Carlo e, già che c'ero, me ne facevo quattro e, tanto per esagerare, persino otto.
Cercavo di trovare un qualche pertugio per tornare nel mondo del lavoro (non quello che si fa per gloria, ma quello pagato, intendo) quando, in compagnia dei miei pensieri, venni travolto, investito da una signora che usciva da un negozio di vestiti. Come potrete immaginare si trattava della sorella di mia madre.
Il suo esordio non fu dei più brillanti: "Cosa ci fai qui?", ma lei non è mai stata famosa per essere brillante e, certo, non voleva perdere occasione per consolidare la sua fama.
Restando impeccabile, appena un po' sorpreso, mi permisi di ricordarle che IO sono di Torino, mentre LEI abita, vive, dimora, è residente (non posso dire 'lavora', per la semplice ragione che ha mai lavorato) fuori città, quindi, ad onor di logica, io avrei dovuto dire la sua battuta. Ma tant'é, si sa che a volte le battute nei copioni vengono messe alla bell'e meglio.
Cercai di approfittarne per dirle che il lavoro era inconcludente, una vera perdita di tempo e che le mie finanze iniziavano a dare gravi segni di allarme (e parlo di una decina di mesi fa, immaginatevi adesso). Saltando di palla in frasca le domandai se Andrea, il marito, non avrebbe potuto darmi una mano.
Intendiamoci, non parlo di allungare la mano al portafoglio, parlo di lavoro; e neppure di un lavoro da dirigente, ma di un qualsiasi lavoro.
Occorre premettere - ma, dal momento che non l'ho premesso, lo aggiungo adesso - che il marito è mega-dirigente (DG) di una multinazionale USA, circostanza della quale lei si è sempre vantata con amici, parente e sconosciuti (per lo più commesse di negozi).
Chiedere un aiuto proprio a loro era in parte contrario ai miei princippi, ma non certo a quelli dell'amministratore di condominio che, prima o poi, mi avrebbe presentato un preventivo delle spese. Come se non bastasse ho il vezzo di mangiare (sono pieno di vizi).
In fondo, si trattava di uno scambio alla pari: offrivo loro l'occasione di dimostrare la loro magnanimità e potenza, mentre io avrei potuto trovare un lavoro.
La sua risposta non fu diversa dalle alle tre che mi diede nell'arco dell'ultimo anno (ero, quindo, preparato al 4° diniego), intendo da quando persi il lavoro per seguire mia madre: "Andrea non può: per principio non aiuta i parenti" (credo di aver già parlato in altre occasioni dell'etica del lavoro) cui volle, - come sanno essere fantasiose le donne, a volte e se solo s'impegnano - aggiungere una variante: "Ma adesso scusa, devo fare una commissione urgentiiiiiiiiissima...ti chiamo per sapere come va...".
Ora, credo che i più intuitivi tra voi abbiano capito che non ho sue notizie negli ultimi 10mesi10, ma vi stupirò rivelandovi che la commissione urgente era andare a girare tra gli scaffali della Feltrinelli di p.zza CLN.
E dire che ho sempre pensato che lei ed i libri siano incompatibili come l'acqua e l'olio.
La cosa non mi sorprese più di tanto: ve l'ho detto, se lei non può definirsi originale, certo è coerente con se stessa da almeno 42 anni (ovvero da quando la conosco): quindi, in questi tempi di incoerenza, m'inchino, chapeau, e - già che ci siamo - onore al merito!.
Il fatto è che, mentre sotto i portici stavo per rimettermi sui miei passi, venni colto da una strana riflessione: se mai mi dovesse succedere qualcosa (investito da un'auto, ovvero da un jet in fase di atterraggio - variante, decollo -, colpito da un fulmine/folgore/saetta/infarto/ciclone/tzunami, investito da un pianoforte a coda che precipita dal 24° piano, sbranato da un branco di leoni fuggiti da un circo, ....) beh, di fatto, in via successoria e, quindi, di diritto, LEI sarebbe la mia unica erede!
Il semplice pensiero mi stordì più dell'idea di essere investito, copito, investito, sbranato: come si suol dire, oltre l'inganno, la beffa.
E non penso solo a come si è comportata in tutti questi anni nei miei confronti (ignorare le persone può essere un toccasana), ma anche, e soprattutto, a come si è sempre comportata nei confronti di mia madre.
Insomma, dovevo fare qualcosa, dovevo porre rimedio a questa eventualità, al destino beffardo. E' vero: sono in un'isola pedonale, sono lontano dall'aeroporto, sono sotto i portici e - che io sappia - non ci sono circhi in città: ma è altrettanto vero che, con la fortuna che mi trovo (si rinvia per approfondimenti a "31. Piove (sempre) sul bagnato"), beh, meglio essere prudenti.
Risalii via Roma, imboccai c.so Matteotti e, in una tabaccheria, comprai un foglio A4 con una busta (per fortuna adesso le fanno con la strip e non si deve più leccare il bordo).
Entrai in un bar e, ordinato che ebbi un caffé, mi accomodai ad un tavolino e presi a comporre il mio testamento.
Lo so, me ne rendo conto, la cosa aveva un che di lugubre e di macabro, ma come si suol dire "pensare al meglio, essere pronti al peggio".
Decisi di lasciare quello che mi rimaneva a qualche persona che ne avrebbe avuto bisogno; non si trattava di grandi cose, tant'è che mi bastò una facciata del foglio, ma avevo in cambio la quasi-certezza che qualcuno mi avrebbe ricordato benevolmente.
Risalii qualche portone (non senza prima aver pagato il caffè mica me n'ero dimenticato, che vi credete?) ed andai presso lo studio di un mio amico avvocato poco lontano dove lasciai la busta nella buca delle lettere.
Immancabile un paio di giorni dopo il mio amico S., l'avvocato, mi telefonò con voce appena appena preoccupata ed esordì, lui sì, in modo originale: "Romolo,... che intenzioni hai?".
Con la dovuta calma - da parte mia - cercai di tranquillizzarlo e gli spiegai le ragioni del mio gesto, che non era insano come lui temeva.
E' una giornata uggiosa, come direbbe il Battisti. Non intendo il Cesare B. e nemmeno quello che si fa le vacanze in Brasile per non rientrare in Italia. Intendo Lucio B., quello che, se solo ne avessi conosciuto le canzoni da adolescente, mi avrebbe potuto aiutare per 'rimorchiare' (si dice ancora così?) nelle interminabili serate passate a gorgheggiare in riva al mare alla luce dei falò). Ma io ascoltavo Guccini, i Deep Purple, i più melodici erano i Genesis: poche chances, poche ciancie: un vero autolesionista!
Per sfuggire alla noia della mia ultima esperienza nella galassia assicurativa che volgeva inesorabilmente al termine, mi ritrovavo a fare due passi in p.za s. Carlo e, già che c'ero, me ne facevo quattro e, tanto per esagerare, persino otto.
Cercavo di trovare un qualche pertugio per tornare nel mondo del lavoro (non quello che si fa per gloria, ma quello pagato, intendo) quando, in compagnia dei miei pensieri, venni travolto, investito da una signora che usciva da un negozio di vestiti. Come potrete immaginare si trattava della sorella di mia madre.
Il suo esordio non fu dei più brillanti: "Cosa ci fai qui?", ma lei non è mai stata famosa per essere brillante e, certo, non voleva perdere occasione per consolidare la sua fama.
Restando impeccabile, appena un po' sorpreso, mi permisi di ricordarle che IO sono di Torino, mentre LEI abita, vive, dimora, è residente (non posso dire 'lavora', per la semplice ragione che ha mai lavorato) fuori città, quindi, ad onor di logica, io avrei dovuto dire la sua battuta. Ma tant'é, si sa che a volte le battute nei copioni vengono messe alla bell'e meglio.
Cercai di approfittarne per dirle che il lavoro era inconcludente, una vera perdita di tempo e che le mie finanze iniziavano a dare gravi segni di allarme (e parlo di una decina di mesi fa, immaginatevi adesso). Saltando di palla in frasca le domandai se Andrea, il marito, non avrebbe potuto darmi una mano.
Intendiamoci, non parlo di allungare la mano al portafoglio, parlo di lavoro; e neppure di un lavoro da dirigente, ma di un qualsiasi lavoro.
Occorre premettere - ma, dal momento che non l'ho premesso, lo aggiungo adesso - che il marito è mega-dirigente (DG) di una multinazionale USA, circostanza della quale lei si è sempre vantata con amici, parente e sconosciuti (per lo più commesse di negozi).
Chiedere un aiuto proprio a loro era in parte contrario ai miei princippi, ma non certo a quelli dell'amministratore di condominio che, prima o poi, mi avrebbe presentato un preventivo delle spese. Come se non bastasse ho il vezzo di mangiare (sono pieno di vizi).
In fondo, si trattava di uno scambio alla pari: offrivo loro l'occasione di dimostrare la loro magnanimità e potenza, mentre io avrei potuto trovare un lavoro.
La sua risposta non fu diversa dalle alle tre che mi diede nell'arco dell'ultimo anno (ero, quindo, preparato al 4° diniego), intendo da quando persi il lavoro per seguire mia madre: "Andrea non può: per principio non aiuta i parenti" (credo di aver già parlato in altre occasioni dell'etica del lavoro) cui volle, - come sanno essere fantasiose le donne, a volte e se solo s'impegnano - aggiungere una variante: "Ma adesso scusa, devo fare una commissione urgentiiiiiiiiissima...ti chiamo per sapere come va...".
Ora, credo che i più intuitivi tra voi abbiano capito che non ho sue notizie negli ultimi 10mesi10, ma vi stupirò rivelandovi che la commissione urgente era andare a girare tra gli scaffali della Feltrinelli di p.zza CLN.
E dire che ho sempre pensato che lei ed i libri siano incompatibili come l'acqua e l'olio.
La cosa non mi sorprese più di tanto: ve l'ho detto, se lei non può definirsi originale, certo è coerente con se stessa da almeno 42 anni (ovvero da quando la conosco): quindi, in questi tempi di incoerenza, m'inchino, chapeau, e - già che ci siamo - onore al merito!.
Il fatto è che, mentre sotto i portici stavo per rimettermi sui miei passi, venni colto da una strana riflessione: se mai mi dovesse succedere qualcosa (investito da un'auto, ovvero da un jet in fase di atterraggio - variante, decollo -, colpito da un fulmine/folgore/saetta/infarto/ciclone/tzunami, investito da un pianoforte a coda che precipita dal 24° piano, sbranato da un branco di leoni fuggiti da un circo, ....) beh, di fatto, in via successoria e, quindi, di diritto, LEI sarebbe la mia unica erede!
Il semplice pensiero mi stordì più dell'idea di essere investito, copito, investito, sbranato: come si suol dire, oltre l'inganno, la beffa.
E non penso solo a come si è comportata in tutti questi anni nei miei confronti (ignorare le persone può essere un toccasana), ma anche, e soprattutto, a come si è sempre comportata nei confronti di mia madre.
Insomma, dovevo fare qualcosa, dovevo porre rimedio a questa eventualità, al destino beffardo. E' vero: sono in un'isola pedonale, sono lontano dall'aeroporto, sono sotto i portici e - che io sappia - non ci sono circhi in città: ma è altrettanto vero che, con la fortuna che mi trovo (si rinvia per approfondimenti a "31. Piove (sempre) sul bagnato"), beh, meglio essere prudenti.
Risalii via Roma, imboccai c.so Matteotti e, in una tabaccheria, comprai un foglio A4 con una busta (per fortuna adesso le fanno con la strip e non si deve più leccare il bordo).
Entrai in un bar e, ordinato che ebbi un caffé, mi accomodai ad un tavolino e presi a comporre il mio testamento.
Lo so, me ne rendo conto, la cosa aveva un che di lugubre e di macabro, ma come si suol dire "pensare al meglio, essere pronti al peggio".
Decisi di lasciare quello che mi rimaneva a qualche persona che ne avrebbe avuto bisogno; non si trattava di grandi cose, tant'è che mi bastò una facciata del foglio, ma avevo in cambio la quasi-certezza che qualcuno mi avrebbe ricordato benevolmente.
Risalii qualche portone (non senza prima aver pagato il caffè mica me n'ero dimenticato, che vi credete?) ed andai presso lo studio di un mio amico avvocato poco lontano dove lasciai la busta nella buca delle lettere.
Immancabile un paio di giorni dopo il mio amico S., l'avvocato, mi telefonò con voce appena appena preoccupata ed esordì, lui sì, in modo originale: "Romolo,... che intenzioni hai?".
Con la dovuta calma - da parte mia - cercai di tranquillizzarlo e gli spiegai le ragioni del mio gesto, che non era insano come lui temeva.
Epilogo
L'altro giorno, quando sull'altro lato della strada vidi la sorella di mia madre, tirai dritto, contento di quello che non ho, ma anche di quello (anche se poco) che ho.
...e scusate se è poco
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