PARMA 10 aprile 2010 - Congresso di Confindustria.Il Silvio è rassicurante, al solito: il declino dell'Italia non esiste, è solo una montatura dei detrattori del governo «il declino dell'Italia davvero non si vede». Tuttavia era stata proprio la padrona di casa, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, a lanciare il monito: «Uniamo le nostre forze, voltiamo pagina. E’ la crisi peggiore degli ultimi 50 anni: tutti, governo, imprese e sindacati dobbiamo lavorare per evitare il peggio. Dati scientifici dimostrano che il Paese sta declinando».
La presidente Marcegaglia ha detto di non volere sentire più «promesse generiche» e di auspicare entro il 2010 «un impegno per tagliare la spesa pubblica corrente e conseguentemente tagliare le tasse sui lavoratori e sulle imprese». Gli imprenditori chiedono «impegni e tempi precisi» e per questo Marcegaglia propone «un taglio di spesa pubblica pari all'1% del pil all'anno per tre anni». In questi mesi, ha aggiunto, «le imprese e i lavoratori hanno tirato la cinghia, non è possibile che lo Stato non lo faccia».
La Marcegaglia ha poi detto che gli imprenditori sono favorevoli al federalismo fiscale: «Vogliamo che si vada avanti». Poi una bacchettata al Pdl: «I neoeletti presidenti di Calabria e Campania, come primo atto, sono andati a Palazzo Chigi a chiedere una dilazione del rientro del deficit in campo sanitario. Così si incomincia male, questo non è federalismo». E ancora: «Il federalismo fiscale va fatto», ma questo vuol anche dire responsabilizzare i presidenti delle regioni, e per questo chi non riesce a tenere i conti «deve andare a casa e non deve essere più rieletto».
Ma, fin qui, siamo alle solite pantomime, alle solite contraddizioni in termini: la crisi non esiste, ma, se anche esistesse, noi l'abbiamo fronteggiata meglio degli altri.
Il bello della riunione di Confindustria è quanto il Silvio nazionale ha detto in seguito e che deve spingere ad una riflessione.
Di fronte alla platea degli industriali Berlusconi non si è limitato a parlare di economia e ha colto l'occasione per rilanciare il tema delle riforme, in particolare nel campo del fisco e della giustizia. E sull'assetto istituzionale ha ricordato, come già aveva fatto durante la conferenza stampa con Nicolas Sarkozy all'Eliseo (col presidente francese che lo guardava attonito, basito, incredulo, incapace di capire dove il nostro volesse andare a parare), che la Costituzione attribuisce tutti i poteri al Parlamento mentre il governo non ne ha nessuno: «I padri costituenti - ha detto - hanno definito un assetto istituzionale che dà tutti i poteri alle assemblee parlamentari: l’esecutivo non ha nessun potere nel nostro sistema costituzionale». La riforma costituzionale, ha aggiunto, andrà affrontata con il contributo di tutti ma l'orientamento della maggioranza è per una riforma semipresidenziale sul modello francese con però l'elezione contemporanea del Parlamento e del presidente del consiglio, per evitare eventuali problemi di colori diversi e coabitazioni forzate come avvenuto in diverse legislature in Francia. In ogni caso, ha puntualizzato, è importante «dare al presidente del consiglio gli stessi poteri di intervento che hanno i suoi colleghi europei». Ha poi citato a titolo di esempio il piano casa del governo, definito una «idea geniale», che ancora non ha trovato attuazione: «E non parliamo delle regioni di segno opposto al nostro dove la legge non è stata presa in considerazione, ma neanche nelle nostre regioni».
Per correttezza, mi sembra quanto meno doveroso riportare parola per parola parte del discorso dell'amato premier:
«Al federalismo …. questo è evidente, è indispensabile, il contrappeso che deve esserci quello del rafforzamento dei poteri del governo sulle materie di sua competenza.
Ecco, questa esigenza preesistente al federalismo: il paese ha bisogno di governabilità.
La maggioranza ha finora governato in una situazione economica mondiale tra le più difficili, difendendo i beni fondamentali della società italiana, il lavoro, la famiglia, la casa, il risparmio, la coesione sociale e la libertà d'impresa.
Ma, proprio in questi momenti, l'esperienza recente ci ha dimostrato che nell'azione di governo il ruolo del premier resta fondamentale e deve avere maggiori poteri rispetto a quelli attuali che, di fatto sono inesistenti.
I poteri che la Costituzione assegna al presidente sono dei poteri quasi inesistenti.
E' importante chiarire questi punti e portarli alla conoscenza di tutti e direi anche dei giornalisti stranieri che in grande numero hanno chiesto di essere accreditati al nostro congresso e li ringrazio di essere qui.
Non è più rinviabile, quindi, la riforma dei regolamenti parlamentari che sono rimasti praticamente immutati dall'epoca della prima Repubblica e non possono più essere strumento di ritardo e non possono più essere strumento e pretesto di ostruzionismo da parte dell'opposizione.
La riforma, è persino superfluo sottolinearlo, non andrà a ridurre e a mortificare il parlamento, ma, anzi, restituirà al Parlamento il suo giusto ruolo legislativo e la sua piena dignità che è quella di valutare, di discutere, di approvare i provvedimenti di legge nei tempi imposti non dal governo, ma dall'urgenza delle circostanze: anche questo è un modo per restituire agli eletti dal popolo la credibilità e la legittimazione agli occhi del popolo stesso.
Non spetta al governo, naturalmente, né tanto meno al presidente del consiglio riformare i poteri del capo del governo; io, poi, ho espresso queste considerazioni ed indicato le vie logiche più percorribili, ma la materia è di competenza del parlamento, ed è la tipica materia sulla quale è auspicabile e, direi, persino necessario il confronto e se possibile il concorso con l'opposizione.
Se questo concorso ci sarà e sarà serio ed occuperà lo spazio di un mattino prima di un ritorno alla piazza, sarò il primo a rallegrarmene ed a darne atto ai leaders della minoranza, ma è evidente, è assolutamente evidente che nel frattempo la nostra maggioranza ed il popolo della libertà non possono sottrarsi dal fare la loro parte, dal compiere il loro dovere di sciogliere questo nodo nelle forme costituzionalmente previste, ed offrire a voi e a tutti gli italiani la soluzione per un governo che governi ed un parlamento che controlli».
La prima considerazione che si potrebbe sollevare potrebbe essere che, per carità, di riforme istituzionali si può sempre parlare, ma sarebbe interessante riuscire a capire quale sia la reale proposta del governo (e, quindi, di Silvio) sul tema: presidenzialismo, semi-presidenzialismo, alla francese, all'americana, alla tedesca, qualcosa di autoctono, altre varie ed eventuali...
Senza considerare che il Silvio sembra non aver capito che laddove esistono forme di governo presidenziali, il maggior potere (del presidente della Repubblica e/o del governo) sono adeguatamente controbilanciati attribuendo maggior 'peso' proprio a quel parlamento che Lui sembra voler 'ridimensionare' (o 'esautorare'?).
O, forse e più probabilmente, la cosa non gli sfugge ed è proprio quello che vorrebbe.
E già, perché, altrimenti, non si spiegherebbe come mai Egli continui a vagheggiare di ogni volta diverse forme di 'concentrazioni di potere in un'unica persona' (= Lui) a totale discapito degli altri poteri istituzionali (che, poi, sarebbero proprio potere legislativo e giudiziario).
Eppure, viene da domandarsi perché tanto si lamenti di non riuscire a governare e dove e quali siano tutti questi lacci e lacciuoli che l'attività legislativa del suo governo.
Mercoledì 1° ottobre 2009 Silvio ha affermato di voler governare a colpi di decreti legge. Perché? A suo dire le lungaggini parlamentari, la troppa burocrazia, renderebbero inapplicabili provvedimenti urgenti e di cui il paese avrebbe bisogno. La politica del decreto, dunque diventa uno dei punti cardine del governo Berlusconi.
Recita l'art.77 Cost.: Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
Certo, ci vuole un po' di fantasia per riconoscere i necessari requisiti di necessità ed urgenza per: 2001 – falso in bilancio, stop alle rogatorie internazionali; 2002 – conflitto d'interessi, legge Cirami (legittimo sospetto), legge Pecorella (niente appello per l'accusa); 2003 -Lodo Schifani (immunità per le alte cariche), intercettazioni, Tremonti bis (detassazione delle plusvalenze); 2004 – legge Gasparri (sistema TV), segreto di Stato imposto sui lavori di ristrutturazione di Villa Certosa, sanatoria sui reati ambientali e sulle coste; 2005 – legge ex-Cirielli (prescrizioni); 2008 – norma 'blocca-processi', intercettazioni, lodo Alfano (immunità per le alte cariche.
Ma più che fantasia si deve parlare di vero e proprio colpo di genio nel 2010 quando viene varato il cd. Decreto 'salva-liste' per cercare di porre riparo al caos delle elezioni regionali nel Lazio: una norma non solo anti-costituzionale (la materia era e doveva essere regolata da normativa regionale), ma 'interpretativa' e, quindi, neppure prevista prima!
Ma, abbiamo detto, il 1° ottobre 2009 il Silvio nazionale aveva giustificato il ricorso alla decretazione d'urgenza di fronte all'impossibilità di sopportare le lungaggini burocratiche che la normale via legislativa (quella parlamentare) imponeva.
A questo punto sembra doveroso e necessario fare un passo indietro e ricordare quale maggioranza sia richiesta per l'approvazione di una legge: qualora la maggioranza dei presenti in aula abbiano votato favorevolmente il disegno di legge si intende approvato e passa all'altra camera, la quale se vota favorevolmente al progetto senza apportarvi modifiche fa si che sia completata la fase deliberativa.
Fin qui tutto chiaro? Andiamo avanti.
Il governo Berlusconi IV dispone all'inizio della legislatura di una larga maggioranza parlamentare di eletti nelle sue file nei due rami del Parlamento: 343 deputati e 174 senatori, frutto di un risultato del 46,8% alla Camera (17.063.874) e del 47,3% al Senato (15.507.549). La consistenza della maggioranza è tale che i media sono soliti definirla "maggioranza bulgara".
Insomma, senza essere dei maghi dell'aritmetica … i numeri li ha tutti!
E, laddove dovesse venirgli qualche minimo sospetto che le leggi proposte dal governo (= da Lui) non passino, no problem: c'è sempre il voto di fiducia!
E, allora, cos'è il voto di fiducia (rectius, la questione di fiducia)?
La questione di fiducia è un istituto parlamentare riservato al governo e disciplinato dai regolamenti interni della Camera (art. 116) e, in modo più succinto, del senato (art. 161).
La domanda che ne consegue è, quindi, quando un governo pone la questione di fiducia?
Il governo pone la questione di fiducia su una legge (o più comunemente su un emendamento ad una legge), qualificando tale atto come fondamentale della propria azione politica e facendo dipendere dalla sua approvazione la propria permanenza in carica. Nella pratica politica tale strumento viene usato dal Governo per compattare la maggioranza parlamentare che lo sostiene o per evitare l'ostruzionismo dell'opposizione.
Ponendo la fiducia tutti gli emendamenti decadono e la legge deve essere votata così come è stata presentata. Nel caso in cui il Parlamento respinga la questione di fiducia posta dal Governo, quest'ultimo è considerato privo della fiducia della Camera/Senato e pertanto è tenuto a rassegnare il mandato nelle mani del Capo dello Stato. Va inoltre ricordato che tale istituto giuridico, compattando la maggioranza cerca di annullare i franchi tiratori che si nascondono dietro il voto segreto.
Insomma, ovunque la si rigiri la questione di fiducia sembra essere un indicatore della debolezza/insicurezza di un governo che non vanta una salda maggioranza! Eppure mi permetto di ricordarVi che in ciascuno dei due rami del Parlamento il Berlusconi IV (ndr: di seguito B.IV) ha circa il 47%!
La domanda, a questo punto, è: a quanti voti di fiducia ha fatto ricorso il B.IV?
Il 10 marzo 2010 Silvio batte un altro record (manco a farlo apposta era già detentore del precedente record): è legge lo "scudo" che permette al presidente del Consiglio e ai ministri di sottrarsi alle convocazioni in sede giudiziaria, privilegiando gli impegni governativi "autocertificati".
Con la doppia fiducia del Senato, il governo Berlusconi passa in pochi giorni a quota 31 voti di fiducia. Il Berlusconi IV nel suo anno e dieci mesi di vita "stacca" così il Berlusconi II che nella XIV legislatura in quasi quattro anni (per la precisione 3 anni e dieci mesi) aveva fatto ricorso alla questione di fiducia 29 volte.
Ma torniamo alla riunione di Confindustria del 10 aprile 2010.
L'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire e, se c'è qualcosa cui proprio Silvio non sa resistere – oltre alle tentazioni femminili - è attaccare la giustizia.
Ha, infatti, ribadito l'intenzione di portare a termine la riforma della giustizia («Io sono il più grande imputato a livello europeo, queste cose le so, anche se contro di me sono stati intentati processi ridicoli solo a scopo politico») per un ammodernamento del campo penale, con la separazione delle funzioni tra pm e giudici, e per la riduzione dei tempi della giustizia civile. Il leader del Pdl è poi tornato ad attaccare la Corte costituzionale accusata di avere una maggioranza di giudici di sinistra che assecondano le richieste di «una certa corrente della magistratura che si oppone a tutte le leggi che considera scomode».
Eh sì, perché anche la magistratura (ricordo che il 'giudiziario' è il secondo 'potere' dello Stato) è un altro impedimento alla sua azione di governo (solo di quella?)
Con la proposta di riforma del sistema giudiziario, il potere giudiziario, sin ad oggi autonomo in ossequio al principio della separazione dei poteri verrebbe messo alle dipendenze (sotto il controllo?) del potere esecutivo. Oltre a più ampie possibilità di ricusazione del giudice, alla possibilità praticamente illimitata per la difesa di chiedere testimoni senza il 'filtro' del giudice (coi logici riflessi sulla prescrizione), al divieto di introdurre in un processo sentenze precedenti (caso Mills: vi ricorda nulla?).
Insomma, da una parte il Silvio vuole una riforma per le 'insopportabili' lungaggini dei processi, dall'altra introduce tutta una serie di norme che porterebbero inevitabilmente alla prescrizione migliaia di processi. E, naturalmente, a prescrizione anche … i suoi processi!
Ora, provate a pensare se foste Voi ad affrontare un processo nel quale avreste ragione di un Vostro diritto: magari avreste ragione tra 5-10 anni, ma avreste ragione.
Con la riforma proposta dall'Angiolino, semplicemente niente più processo, con buona pace del Vostro diritto leso!
Non sarebbe stato meglio razionalizzare la giustizia altrimenti, magari dotando i giudici di piccì? Adeguando le sedi giudiziarie? Informatizzando l'informatizzabile?
Ed ancora: cosa succederebbe se il potere esecutivo avesse interesse a che certi processi non si facciano?
Ah, dimenticavo di dire che anche l'azione penale non sarebbe più obbligatoria, ma a discrezione del giudice, giudice che -a sua volta – dipenderebbe dall'esecutivo, ovvero da governo (= Lui).
Ma, d'altra parte, un primo tentativo (riuscito) per limitare il potere della magistratura è già stato fatto: lo scudo fiscale impedisce ai giudici qualsiasi controllo sui capitali rientrati!
La domanda che, alla fine, mi viene da sottoporre alla Vostra garbata attenzione è: quello che il Silvio si propone di fare con la restrizione dei poteri dell'Esecutivo e, già che c'è, del Giudiziario e, con l'accrescere dei poteri presidenziali (non è ancora chiaro se Lui intenda del Consiglio o della Repubblica) ha ancora a che fare con la “democrazia”? Può ancora dirsi “democrazia”?
Allora, cos'è la “democrazia”?
Cominciamo col definire la parola 'democrazia'. È importante definirla, sapere cosa vuol dire per stabilire cosa pretendiamo o ci aspettiamo dalla democrazia.
Definire la democrazia è importante perché stabilisce cosa ci aspettiamo dalla democrazia. Al limite, se andiamo a definire la democrazia «irrealmente» non troveremo mai «realtà democratiche». E quando dichiariamo, di volta in volta, «questa è democrazia», oppure che non lo è, è chiaro che il giudizio dipende dalla definizione, o comunque dalla nostra idea di cosa la democrazia sia, possa essere o debba essere.
Attenzione, però, perché è un discorso insidiato da trabocchetti.
Il primo è terminologico: discutere sulla parola ignorando la cosa. Iniziamo quindi dalla parola, la cosa la vedremo dopo.
Se definire la democrazia è spiegare che cosa vuol dire il vocabolo, il problema è presto risolto: basta sapere un po' di greco. La parola significa, alla lettera, potere (kratos) del popolo (demos).
Perciò, tradotta in italiano, essa significa 'potere del popolo'
Se è così, le democrazie, 'devono essere' quel che la parola dice: sistemi di regime politici nei quali è il popolo che comanda.
Tutto risolto? No.
Innanzitutto, chi è il popolo? E, poi, come attribuire il potere al popolo?
Già dal V-IC sec. a.C. la parola demos ha avuto svariate interpretazioni.
Per i Greci la parola poteva essere ricondotta a quattro significati.
plethos, cioè il plenum, l'intero corpo dei cittadini: qui il popolo sono i tutti
hoi polloi, i molti. L'inconveniente di questa accezione è che rinvia alla domanda: “quanti molti sono sufficienti per fare un demos?” Lo dovremo stabilire ogni volta, e questo non va bene.
hoi pleiones, i più. Questa, invece, è un'accezione fondamentale perché la democrazia si fonda su una regola maggioritaria che ne deriva.
ochlos, la folla. Un raduno 'occasionale' che, però, può diventare 'caldo'. Ad Atene 'la folla' era importante perché era una democrazia diretta. Ma ridiventa importante man mano che la democrazia dei moderni attiva le folle e se ne avvale.
Lasciando i Greci, il discorso diventa ancora più complesso non appena il demos viene convertito nel latino populus, perché i romani – ed ancor più la cultura medioevale – faranno di populus sia un concetto giuridico, sia un'entità organica.
Infine, si deve ricordare un significato che in parte è aristotelico (il demos sono i poveri) in parte è marxista (il popolo è il proletariato).
In questa ottica il demos è una parte del popolo, quella più povera o quella più numerosa.
Ma così abbiamo solo risolto un problema verbale: si è soltanto spiegato un nome. Il problema di definire la democrazia è assai più complesso.
Come si vede l'intrico non è piccolo, ma viene semplificato oggi da due nozioni 'operative' di democrazia ('operative' nel senso che guardano alla democrazia per come opera). In questo senso troviamo il principio di maggioranza assoluta oppure relativa.
Il primo vuol dire i più hanno tutti i diritti, mentre i meno, la minoranza, non hanno alcun diritto.
Invece, il principio di maggioranza relativa si esplica così: i più hanno il diritto di comandare, ma nel rispetto dei diritti della minoranza.
Quindi, da un punto di vista operativo, il demos è una maggioranza assoluta o moderata e la dottrina è pressoché unanime nel sostenere che la democrazia si deve ispirare al principio della maggioranza limitata o moderata.
Altrimenti vive un giorno e comincia a morire il giorno dopo.
Nel mondo modernizzato chi oggi governa senza democrazia gioca senza legittimità. Ma anche il gioco democratico può essere giocato male. Saprà la democrazia resistere alla democrazia? Sì, ma a patto di giocare con più intelligenza e soprattutto con più responsabilità di quanta io oggi ne veda a giro. Sì perché il pessimismo dell'intelligenza va combattuto da un ottimismo della volontà. Ma se ci culleremo nella illusione (irresponsabile) di un futuro «sicuro», allora è sicuro che tale non sarà.
Nota benissimo Kolakowski: «L'euforia è sempre breve. L'euforia del postcomunismo è già passata e le premonizioni di pericoli imminenti sono crescenti». Tra questi le teste di bambagia piene di aria fritta allevate via etere.
[Giovanni Sartori, Democrazia: cosa è, Rizzoli, Milano, 1993]