lunedì 16 marzo 2009

11. Caffè per tutti


Non è detto che un disoccupato resti per sempre disoccupato durante il periodo di disoccupazione.
Tutto è iniziato per caso.
Da mesi, per ovviare al pericolo di stare chiuso in casa, mi sono imposto di uscire di casa tutte le mattine non oltre le nove.
Non potendo da oltre un anno permettermi di andare in palestra, un po’ per mantenermi in forma, un po’ per far passare il tempo, avevo preso il vezzo di andare da casa sino in centro a piedi. Tempi da maratoneta: 1 ora.
Arrivato in centro avevo scelto come ‘casa base’ il bar di un amico, Michele, che gestisce, sarebbe più corretto dire ‘gestiva’ un bar in via XX settembre, a due passi dal cinema Reposi.
La posizione era strategica per diverse ragioni: la prima è che mi permetteva di riprendere fiato; la seconda, che potevo fare il punto della situazione: proseguire fino in via Verdi per andare a consultare le offerte di lavoro su internet (ma di questo parlerò in altra sede), andare a trovare qualche amico che lavora in centro; andare in biblioteca per consultare le offerte sui giornali, varie ed eventuali; quarto, bere un caffè a soli 50 cents.

Conosco Michele da una vita.

Michele ha avuto l’avventura di essere mio istruttore di karate quando iniziai, un 25 anni fa, circostanza che mi permette, quando mi rimbrotta di non riuscire a tirare il mae-geri (calcio circolare) di ricordargli che lui è stato uno dei miei primi istruttori e che, quindi, la colpa è sicuramente anche un po’ sua.
Eppoi sono viziato, ho sempre avuto l’abitudine, anche quando lavoravo (sembrano passati anni, certo più di due) di prendere un caffè prima di andare a lavorare sempre negli stessi bar. La circostanza non è casuale. Non sono certo di quelle persone che gioiscono all’idea di andare a lavorare: potessi permettermelo non lavorerei, ritengo di avere mille altri impegni che occuperebbero il mio tempo. Ma come disse il buon Truffaut, lavorare è un po’ come respirare o defecare: lo si fa perché non se ne può fare a meno.
Andare, quindi, in un bar dove si è riconosciuti, ha l’indubbio pregio di essere un po’ come a casa propria. Dopo qualche mese di duro addestramento, il barista sa, solo guardandovi, se quella mattina vi va o meno di parlare. E, visto che per me la pausa caffè prima di andare a lavorare è un momento catartico, una sorta di camera di decompressione, trovare un bar, buono, con un caffè buono, con un barista correttamente addestrato, non è un aspetto di secondaria importanza.
Anche perché a me la mattina non va di parlare. Un barista che mi conosce sa che prendo il caffè amaro (come la vita), non mi chiede se voglio un caffè macchiato – caldo o freddo -, un marocchino, peggio ancora un cappuccino. L’avessi voluto l’avrei chiesto.
Io bevo solo un caffè amaro e capisco che il barista è addestrato quando ha il garbo di non affiancare alla tazzina il cucchiaino.

Ma dicevo.

Da qualche giorno avevo notato che Michele aveva nuovamente cambiato le cameriere, che il fratello che lo affiancava era misteriosamente sparito, sparito come il cuoco che da un paio di mesi era curiosamente comparso.
Eddi, il cuoco (sul quale ritornerò) era, per quello che avevo potuto vedere, un tipo alquanto curioso. Compariva dalle cucine quando meno ce lo si aspettava, con immancabile canotta rossa traforata, grassoccio come ci si aspetterebbe da un cuoco, improbabili tatuaggi tanto vistosi quanto sbiaditi (chi non ricorda i mitici tatuaggi trasferelli che avevano popolato la nostra adolescenza, o quelli che si trovavano nelle bustine tipo Panini); ma i tatuaggi di Eddi erano di dimensioni esagerate, modello Lucciardone.
Le sue apparizioni, poi, erano accompagnate da un alone di fritto-padella che evaporava dalla cucina ogni volta che si apriva e chiudeva la porta da saloon.

"Ué, Maicol – mi ero permesso di dire – ci siamo dati alla nouvelle cuisine?". Lo ammetto, ci sono battute che dovrebbero spegnersi prima ancora di essere pronunciate, a giudicare dallo sguardo fulminante con la quale venne accolta. Credo di ricordare, se la memoria non mi falla, che quel giorno Michele mi fece pagare il caffè a prezzo intero; non so se lo zuccherò perché, per paura che ci avesse immerso la spugnetta insaponata, preferii uscire senza la consumazione.
Comunque, alla mia osservazione che le cameriere continuavano a cambiare come i ragazzi che vedo entrare in casa della ragazza del 3° piano di dove abito, il Michele, prima ancora che avessi finito di pronunciare la mia frase, mi ribatté: "Sai cucinare?"
"Beh, Maicol, cucinare è una parola grossa, vabbé, ero indeciso se fare il liceo classico o culinaria, ma optai per il classico; adoravo cucinare per gli amici, ma lì, agli amici, imponi il menù che decidi tu e se, poi, sei in difficoltà, si può fare un salto in rosticceria: lo sapevi che i girarrosti S. Rita sono aperti fino a tardi? Le patate sono imbattibili".

Michele è persona di poche parole, abituato a fare lezione in palestra, le sue non sono domande, sono affermazioni che, per una curiosa inflessione nella frase, sembra abbiano un punto interrogativo alla fine.
"Cioè, volevo dire, certo che so cucinare".
"Allora vieni domattina 10.30-11".
Come contraddirlo, ho fatto un minimo il prezioso, ma, dopo tutto, non avevo alcun impegno, quindi gli risposi "Certo, certo, mon capitaine".

Il giorno dopo, in metro, ricordo che mi domandavo "Ma che cavolo so fare io in una cucina, alle prese con ordini, padelle, pentole, …".
Quando mi trovo in situazioni del genere, cerco di immaginarmi il mio peggior nemico, meglio se stupido, e mi dico che se lo sa fare lui, lo potrei fare anch’io.
Mi presento al bar alle 9, con due ore di anticipo e col mio miglior sorriso, ed imbocco la strada della cucina.
Faccio conoscenza con le due ragazze che facevano le cameriere, Anna e Simona.
Anna, ad essere sinceri, la conoscevo già per averla conosciuta quando, un pio di anni fa, frequentai la palestra del Michele, e ben presto seppi che Simona era una ex cliente del bar, anche lei disoccupata ed imbarcata in quest’avventura.
In questi ultimi anni ho imparato ad essere ottimista ed a vedere anche nelle situazioni negative il lato positivo: insomma, tre dilettanti allo sbaraglio, quattro naufraghi alle deriva, ma simpatici.

Altro lato positivo: il caffè gratis.

Nei momenti morti il Michele aveva l’abitudine di chiedere se qualcuno voleva un caffè, ed immancabile uno dei tre, forse per non ferirlo, forse per essere gentile, forse perché aveva fatto le ore piccole, cedeva all’offerta e gli altri, per non essere da meno, si univano.

Caffè per tutti.



In realtà sin dall’inizio era chiaro che l’esperienza sarebbe stata a termine. Non meglio chiarite situazioni tra Michele, il fratello di lui (quello scomparso) ed un socio ombra (nel senso che se ne parlava, ma nessuno la aveva mai visto) avevano portato alla chiusura della gestione del bar, ed il nostro compito era di arrivare alla scadenza del contratto. Sissì, alla scadenza, proprio come il latte.
Insomma, il nostro compito era di portare la barca in porto, evitando di farla affondare, o, ma è solo un altro modo di dire la stessa cosa, di fare meno danno possibili.
Era evidente che nessuno di noi fosse un mago dei fornelli, anche se io lamentavo che i fornelli non erano quelli a cui ero abituato e, certo, non si può fare buona cucina quando si devono sfamare impiegati che non avrebbero saputo distinguere un uovo sodo da un profiterol alla cioccolata.

Stavo entrando nella parte del perfetto millantatore.

In realtà il clima era cordiale.
Anna arrivava prima degli altri ed aiutava il Michele a preparare i panini. Io passavo dal mercato per fare la spesa di frutta e verdura, Simona, almeno i primi giorni, aveva convinto il padre a preparare dei secondi che dessero un senso al menù.
Fatti i panini era il momento della macedonia, in occasione della quale io diedi prova della mia maestria. La macedonia è quello che è, della frutta, ma io insistetti sull’accostamento dei colori e, nei giorni seguenti, rivendicai a me il ruolo – altrimenti insostituibile – di pensare alla macedonia.
Per preparare i savoiardi alla crema venne una volta Francesca, la figlia di Michele a darci lezione, mentre noi, diligentemente, prendevamo appunti. Per la crema alla bavarese fu più facile: la ricetta sulle confezioni Elah si dimostrò affidabile e precisa nelle dosi, anche se ciascuno di noi volle dire la sua, suggerendo di mettere chi più latte, chi meno cacao. Io fui irremovibile di fronte a chi voleva spruzzarvi sopra della panna spray.

La pasta merita un capitolo a parte.
Il cliente che si illude che ordinando la pasta nella pausa pranzo, per di più in un bar, ancor di più pretendendola in 5 minuti, si veda arrivare della pasta cotta al momento è uno sciocco.
La pasta viene (so già che per alcuni sarà il crollo di un mito) fatta bollire – non meno di 2 chili – in un enorme calderone intorno alle 11-11.30. Quindi si applica la regola del –3: si legge sulla busta il tempo di cottura suggerito e si tolgono 3 minuti. Se il periodo di cottura indicato è di 12 minuti, la si scola dopo 8 minuti e la si innaffia di olio per evitare che si incolli, effetto poco gradito a taluni clienti intolleranti che in tal modo manifestano personali repressioni freudiane.
Quando arriva il bigliettino con l’ordine, si butta in una padella e la si rianima con una buona e generosa mestolata di sugo.

La circostanza che fece dubitare ad Anna, Simona e financo a Michele che, forse ma forse io sapessi cucinare, fu che riuscii sin dal primo tentativo a far saltare la pasta in padella. Avete presente quello che si vede fare agli chef in tivvù nelle immancabili trasmissioni sulla cucina? Qualcosa del genere. I primi tentativi erano alquanto timidi, ma col passare dei giorni presi coraggio e ne divenni un vero cultore.
Abilità? Più che altro ha a che fare con quella parte del vostro corpo sulla quale vi appoggiate quando vi sedete. Ma tanto fece che meritai se non il rispetto (parola grossa), quanto meno il dubbio.
Per accrescere tale dubbio a mio favore, ripresi gelidamente Anna quel giorno che si incaricò di fare lei la pasta: l’acqua nella quale voleva annegare la pasta mi sembrava visibilmente insufficiente e non accettò alcun suggerimento di non andare oltre i limiti di cottura indicati. Ma, sinceramente, avete mai provato a contraddire una femmina in uno di quei giorni? Follia pura, autolesionismo, un tentativo irragionevole di suicidio.

La padella, comunque, divenne il mio scettro. Dopo il primo giorno mi esaltai a tal punto da non battere ciglio quando mi venne proposto di servire non una, ma due tipi di pasta: fornello destra pasta al sugo, fornello sinistra pasta al pesto.
La cosa un attimo più difficile da gestire era il microonde.
Di fronte a me avevo due microonde: a parità di potenza e di tempo, due cotture diverse. Come se non bastasse, a seconda dei giorni (se pari o dispari), dell’umidità dell’aria, della pressione barometrica, ogni giorno era una nuova avventura.
Poco male, si impara ad andare per tentativi.
A dire il vero il Michele, dall’alto della sua esperienza, aveva suggerito che noi assaggiassimo prima dell’arrivo dei clienti, e, ad essere sinceri, non ci fu giorno in cui non spergiurassimo di averlo fatto. Mai.

Per le lasagne verdi del secondo giorno ci sembrava che avessimo azzeccato il tempo, anzi, ad essere sinceri, le lasagne addirittura fumavano. C’era solo il dubbio, date le dimensioni e, soprattutto, lo spessore delle stesse, che all’interno, forse, magari, potessero essere ancora appena appena freddine.

Completamente calato nella parte, invitai, anzi ordinai ad Anna di portarle al tavolo, salvo poi, una volta rientrata in cucina, chiederle di affacciarsi alla porta per vedere la reazione del cliente.
Il cliente non si lamentò, ma io adottai un vecchio trucco che ci tramandiamo da generazioni tra noi chef: feci servire il cliente da Anna la quale, forse avevo dimenticato di dirlo, è anche sufficientemente carina.
Col passato di broccoli la sorte fu meno benigna.
Ritrovate in fondo al frigo in precario stato di conservazione, solo la scritta sul sacchetto indicava di cosa, forse, si trattava, mentre i più scettici avanzavano l’ipotesi del ragù.
Decidemmo di scongelarla rapidamente al microonde, ma, nonostante oltre dieci minuti alla potenza massima, una volta tirato fuori il piatto, emergevano dei blocchi di ghiaccio dal vago colore verdognolo.
Io suggerii di indicare sulla lavagna del menù ‘granita di broccoli’, ma la mia proposta, per quanto originale, venne bocciata per 3 voti a uno.

Per le verdure ci eravamo attestati su immancabili spinaci al burro, carote in varia foggia, ordine e dimensione, zucchine che Simona, lasciata per una volta da sola, aveva soffocato nell’aglio, zucchine gratinate. Insomma, una sana cucina ipocalorica, se si trascura il burro degli spinaci, pareggiato dall’aglio delle zucchine, che, però, dicono far tanto bene alla pressione.
Per la carne, invece, ci affidammo ad un servizio di catering.
Il tutto fece aumentare l’aurea di rispetto dei clienti nei miei confronti, anche perché Michele, per stizza nei confronti con Eddi (ricordate, il cuoco con la canotta rossa traforata) andava dicendo tra i tavoli che il cuoco era cambiato.

A questo punto vale sciogliere le riserve su Eddi.
E’ vero, la cucina era cambiata, non solo per il servizio di catering, ma anche perché, a quello che mi è stato riferito, l’Eddi aveva la cucina appena appena pesante. Alcune leggende metropolitane nelle quali, si dice, ci sia, comunque, un fondo di vero) affermano che alcuni impiegati una volta rientrati in ufficio venivano ricoverati con inverosimili livelli di glicemia; alcune cartelle cliniche – si dice – riferissero di vaghe tracce di sangue in vene ricoperte di strutto).




Eddi è omosessuale. E fin qui niente di male. Considerate che la cucina è il regno delle donne, mentre i grandi chef sono quasi tutti uomini. Senza contare che io inizio a giudicare la bisessualità semplicemente un’opportunità per raddoppiare le opportunità di frequentare delle persone.
Il fatto è che Eddi passava i tempi morti (e vi garantisco che fino alle 12 e dopo le 14 i tempi morti abbondano) chattando al piccì del bancone su linee gay e che, dulcis in fundo, gli amici gli inviavano foto a schermo interno di uomini nudi in improbabili accoppiamenti. Il fatto poteva, al limite ma proprio al limite essere accettato, se non fosse per il fatto, non trascurabile, che i clienti potevano tranquillamente pranzare vedendo le simpatiche videate.
Per rappresaglia il Michele staccò la cassa che collegava lo stereo alla cucina.
Tale circostanza suscitò la mia riprovazione ed al terzo giorno organizzai il primo sciopero che si sia visto in un bar per riottenere la musica. Incontrando la solidarietà di Anna e Simona la cassa venne ricollegata.
Eddi, tuttavia, aveva instaurato una disciplina che, se solo me ne fosse stata offerta l’opportunità non avrei esitato a restaurare, a costo di finire come il comandante del Bounty
Anzitutto, Eddi non lavava i piatti e, vi garantisco, giostrare con due padelle, due microonde, stare dietro agli ordini e lavare, nel contempo i piatti, non è cosa da poco.
Non solo, ma le ragazze dovevano anche essere pronte a presentargli i piatti al semplice comando "piano" o "fondo" prima che lasciasse cadere da mestolo in terra la pasta, la carne, la verdura etc.
L’usanza può sembrare ai non addetti un attimo barbara ed incivile, ma io credo che una sana disciplina sia la base di un sistema efficiente.
Infine, per non dover gestire contemporaneamente due ordini di pasta diversi, aveva il vezzo di preparare un pentolone di minestrone, sempre lo stesso, ma indicato nel menù ogni giorno con nomi diversi. Il pentolone veniva tenuto su una fiamma bassa e soddisfala l’unico ordine della giornata: quello della nipote!

Restava qualche avanzo? Nessun problema. Immancabilmente, tra le 14 e le 14.30 arrivavano gli ultimi sei clienti, il gruppo di rock&folk e della Feltrinelli i quali si accontentavano di quello che avanzava. Bastava presentarlo con un sorriso, magari sottolineando che lo si era messo da parte per loro ed il giuoco era fatto.

Dalle 14 si riassettava la cucina, si pulivano le due sale, si lavavano i pavimenti.
Solo la pulizia dell’affettatrice era compito che non si poteva sottrarre a Simona. Per quanto qualcuno avesse avuto la dabbenaggine di pulirla prima o se anche Simona stessa l’avesse pulita prima delle 14, immancabilmente, con calma serafica ed irremovibile Simona la ripuliva in ogni dove.
Andati via i clienti, si pranzava con quanto restava e, se avanzava qualcosa, si portava a casa per eventuali genitori Anna), fratelli (Simona), gatti (io).
Insomma, in poco più di due settimane i clienti impararono ad apprezzare cucina e piatti perfettamente puliti, mancanza di cui, ora, dovranno farsene una ragione, dal momento che il bar è chiuso.

Alla fine immancabile caffè per tutti.

Adesso che il bar è chiuso, a parte cercare – come prima – un lavoro, mi resta un dubbio: ... e dove vado a prendere il caffè adesso?

NON E` una storia di pura invenzione.
Nel racconto SI FA riferimento a fatti e persone REALI.

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